DESCRIPTION A gondola appears and a masked woman hurries over to the sleeping Gennaro and observes him with affection: 0:00 Com’è bello, quale incanto - Celestina BONINSEGNA did achieve considerable success on 78-rpm gramophone records, being one of the first lyric-dramatic sopranos whose voice recorded well. Critics particularly admired her relatively smooth vocal delivery and the dignity and refinement that she gave to the vocal lines of the music. 2:53 Maria DE MACCHI sang the title role in the Met's only performance to date of "Lucrezia Borgia". Interesting to hear her "Com’è bello, quale incanto". In 1904 she made guest appearance at the Met; here she sang the title role in Lucrezia Borgia together with Enrico Caruso. In 1909 she appeared for the last time in Rome as Lucrezia. Gennaro expresses his love for her and sings of his childhood as an orphan brought up by fishermen. He adds that he loves dearly the mother he has never met: 9:14 Di pescatore ignobile - 32:56 Madre, se ognor lontano - Francesco MARCONI. The operatic parts that Marconi undertook in Europe and the two American continents included the principal tenor role in Lucrezia Borgia. Famed during the peak of his career for the silvery beauty of his singing, the ease of his high notes and the spontaneity of his interpretations. The Duke, believing Gennaro to be Lucrezia's lover, plots his murder... 14:41 Vieni la mia vendetta - Qualunque sia l'evento - Francesco NAVARINI. He made his debut in 1876 at the Teatro Comunale of Ferrara as Alfonso in Lucrezia Borgia. Lucrezia denies any impropriety, but the Duke demands the prisoner's death and forces her to choose the manner of Gennaro's execution. Pretending to pardon him, the Duke offers Gennaro a glass of wine and he swallows it: 19:40 Guai se ti sfugge un moto - Alberto De Bassini (Baritone) (Firenze 1847 - Milan?) was not very successful in Italy, and in 1898 he emigrated to North America. Gennaro seizes a dagger and attempts to kill Lucrezia, but she stops him by revealing that he is in fact her son. Once again she asks him to drink the antidote, but this time he refuses, choosing to die with his friends: 26:54 M'odi, ah m'odi - Ines DE FRATE (Alexandria1854, Egypt - Milan 1924) Norma at La Scala 1898-1899. Records made for HMV in Milan, including arias from Aida, Nabucco, Lucrezia Borgia, Norma. A 1908 letter in the EMI archives recommends de Frate to the head office in England: "Madame De Frate although she has had 20 years career is still a fine dramatic soprano with fine old classic school so rarely to be found today". Rubato full of expressive hesitations. Gennaro draws his last breath in his mother's fond embrace: 32:56 Madre, se ognor lontano - one of the most glorious floating endings of the belcanto repertoire: "The Original Finale of Lucrezia Borgia": ua-cam.com/video/d0HaLr-Fwk4/v-deo.html The closing cabaletta "Era desso il figlio mio" was added by Donizetti upon insistence by renowned soprano Henriette Méric-Lalande, who created the role of Lucrezia Borgia. Donizetti later removed the cabaletta because he believed it damaged the credibility of the ending. This original finale of Lucrezia Borgia is the way Donizetti wanted the opera to end, without that flashy cabaletta, as glamorous as it turned out. He was right of course. The entire score was waayyy ahead of its time for 1833. Although I like "Era desso" (as much as I like any cabaletta), this version DOES make way more sense to me. And I've heard people complaining about Donizetti setting tragic texts to lively, major-key melodies... that cabaletta pushes quite a bit in that direction. But the finale here is so simple and effective, and thanks to Francesco Marconi, who sings it with great abandon, really suggest itself as the better way for Lucrezia's misery to sublimate... so "Wagnerian"! -------------------------------------
DESCRIZIONE 0:00 La BONINSEGNA... In effetti è tra le prime voci di soprano a risultare pastosa in disco, omogenea e stupendamente emessa. Ha scarsa personalità però, manca di autentico abbandono e di accento tragico. 2:53 Maria DE MACCHI (1870-1909) studiò con Virginia Boccabadati, come la Boninsegna, e debuttò come contralto, nel 1889, come Laura in Gioconda a Brescia. Dotata di una voce suntuosa, dal timbro scuro e regale, rispettosa delle regole fondamentali del legato ottocentesco, giunse alla Scala, come soprano, per una ripresa de La regina di Saba, nel 1901 diretta da Toscanini. Al Metropolitan nel 1904 fu Lucrezia Borgia accanto a Gennaro impersonato da Enrico Caruso; l'ultima sua apparizione in teatro prima della morte, la vide ancora nell'opera di Donizetti a Roma, dove già era stata al Costanzi come Lucrezia Borgia nel 1904. 6:28 Alessandro BONCI e 9:14 Francesco MARCONI sono nonostante i suoni un poco aperti al centro, nonostante le libertà ritmiche ed agogiche, nonostante certi patti con il solfeggio e il ritmo capaci con una sola frase con un rubato di evocare per magia l’eroe romantico, il giovane innamorato. Le libertà di Marconi in fatto di tempi e dinamica si risolvono in una esecuzione dolcissima, sfumatissima, veramente protoromantica, ma per nulla sdilinquita o asettica. 12:07 Giuseppe ANSELMI - Grande tenore, è l'emblema della voce "di grazia" di primo '900, non grande volume ma timbro, vibrazione, brillantezza e impasto personalissimo. Ha il languore e l'eleganza salottiera dei grandi tenori della sua epoca. 14:41 Basso Francesco NAVAR (R) INI (1855-1923) debutta a Treviso come il Duca Alfonso in Lucrezia Borgia. Si esibisce in tutta Italia e al Teatro alla Scala di Milano tra il 1883 e il 1899, in questo teatro il 5 febbraio 1887, crea il personaggio di Lodovico nella prima assoluta dell' Otello di Giuseppe Verdi. Si ritira dalle scene nel 1914. 19:40 Un vero inconeabulo risale al 1898 cantato da Alberto De BASSINI con Dante Del Papa e Rosalia Chalia 24:23 Elena TEODORINI. Voce ambigua, che esibisce, oltre ad un cospicuo e per il nostro gusto ostentato registro grave, libertà di tempi che oggi sarebbero censurate. Nel caso di specie il rallentando prima e l’accellerando, poi, su “il veleno a prevenire” hanno una carica drammatica estranea alle esecuzioni attuali. Dello stesso livello, con un uso molto marcato del registro di petto la registrazione di 26:54 Se sentiamo Ines de FRATE desta stupore la discesa con un suono di petto ampio, sonoro al re grave di “serbarmi in VITA” e la facilità con cui sostiene un tempo lentissimo staccato all’inizio della romanza. La libertà di tempo non serve, in questo caso al solo sfoggio vocale, ma alla resa della situazione scenica, vedi, dopo che la cantante ha esibito un timbro malinconico ed il tempo lento delle prime frasi, il primo accelerando di Ines alla ripetizione di “mille volte al cor ferita” o il rallentando e stringendo sulla frase “non voler incrudelir”. Quando arrivano le frasi conclusive c’è un vero colpo di teatro perché la cantante accelera sulle frasi, che riguardano il dramma “il tempo vola” e su cui cadono le varianti acute e rallenta e addolcisce su tutte quelle di supplica a Gennaro a bere l’antidoto. Geniale. Aggiungo che la dizione della de Frate è scolpita e si comprendono tutte le parole senza che la cantante risulti eccessiva (siamo all’epoca dell’avvento del Verismo e la de Frate stessa cantò titoli veristi). www.corgrisi.com/2016/01/comparare-linterpretazione-vocale-lucrezia-borgia-by-caballe-de-frate-von-seebock/ -------------------------------------
A huge thankyou to you is due for the wonderful archives of 78rpm vintage recordings that you have assembled for public delectation - every one a gem! many thanks for this lovely selection! I loved every second of these performances and of how you put them together.
un video a dir poco stupendo. Lyda Borelli semplicemente fantastica... grazieee!!! 26:54 Se sentiamo Ines de Frate desta stupore la discesa con un suono di petto ampio, sonoro al re grave di “serbarmi in VITA” e la facilità con cui sostiene un tempo lentissimo staccato all’inizio della romanza. La libertà di tempo non serve, in questo caso al solo sfoggio vocale, ma alla resa della situazione scenica, vedi, dopo che la cantante ha esibito un timbro malinconico ed il tempo lento delle prime frasi, il primo accelerando di Ines alla ripetizione di “mille volte al cor ferita” o il rallentando e stringendo sulla frase “non voler incrudelir”. Quando arrivano le frasi conclusive c’è un vero colpo di teatro perché la cantante accelera sulle frasi, che riguardano il dramma “il tempo vola” e su cui cadono le varianti acute e rallenta e addolcisce su tutte quelle di supplica a Gennaro a bere l’antidoto. Geniale. Aggiungo che la dizione della de Frate è scolpita e si comprendono tutte le parole senza che la cantante risulti eccessiva (siamo all’epoca dell’avvento del Verismo e la de Frate stessa cantò titoli veristi). www.corgrisi.com/2016/01/comparare-linterpretazione-vocale-lucrezia-borgia-by-caballe-de-frate-von-seebock/
2:53 Maria de Macchi (1870-1909) sang the title role in the Met's only performance to date of "Lucrezia Borgia". Interesting to hear her, thx for the upload :)
La De Macchi, celeberrimo soprano dell'epoca, è deludente. Ma può essere che all'epoca della incisione fosse già in declino. Gianluigi Cortecci: "Non è ancora del tutto facile ricostruire la vita e la carriera di Maria De Macchi, soprano piemontese. Non compare nemmeno nelle "Grandi Voci". Innanzitutto, difficile stabile con certezza la data di nascita. La quale è quasi certamente da collocare al 1870, ma c'è chi l'antepone al 1867, come il Dizionario Biografico degli Italiani. Non del tutto chiari anche i suoi studi. Pare si sia formata con Virginia Boccabadati Carignani, soprano Italiano nato nel 1828 e in attività dal 1847, stimata da Giuseppe Verdi, il quale pur riconoscendole mezzi non eccezionali e voce non grande, ne ammirava le indubbie qualità stilistiche, la duttilità e l'estensione. Certamente, per la De Macchi, formazione romantica in quanto concerne gusto, stile e tecnica. Ma avendo anch'ella debuttato in piena epoca verista, alternò costanti rappresentazioni di opere romantiche , tipo Aida e Ernani, a lavori della nuova generazione, che fervidamente accolse nel proprio repertorio ad onta dell'estrazione romantica della sua personalità. Dunque, accanto a numerosissime Aida, Lucezia, Ballo, alternava Cavalleria, Fedora e Gioconda, di cui divenne interprete di riferimento nei primissimi anni del '900. Pur avendo avuto grande carriera internazionale con frequentazioni al Metropolitan, al San Carlo di Lisbona e a Philadelphia , in Italia cantò pochissime volte alla Scala e non riuscì mai a discostarsi dall'onesta provincia, principalmente a causa di forti problemi cardiaci che le avevano procurato alcuni insuccessi, e a causa dei quali soccombette nel 1909 in una clinica milanese, a soli trentanove anni. Ha inciso non poche facciate per la Fonotipia, alcune delle quali mai pubblicate, tra cui un'interessantissima scena del Nilo con Giuseppe Taccani del 1907. Dalle registrazioni, le qualità della voce emergono senza ombre. Voce poderosa da soprano drammatico di bel colore, anche se non personalissimo, vanta omogeneità, estensione e squillo, nonché un'emissione che antepone sempre la costante morbidezza e purezza del suono anche in opere tipo Cavalleria. Difatti, il duetto tratto da quest'opera e inciso col tenore Ventura, è un esempio di come s'intendeva il verismo prima dell'avvento di Eugenia Burzio e Enrico Caruso : assenza quasi totale di platealità nell'accento, declamato più composto e statico rispetto agli interpreti di qualche anno dopo e vocalità imperniata tutta sulla rotondità del suono nel medium e nella dinamite dello squillo nell'acuto. Anche il tenore Ventura è emblematico in quest'ambito, timbro da "mezzocarattere", rappresenta un po' il tipo dei primissimi tenori veristi, tutti d'estrazione romantica e quasi tutti tenori di grazia: Stagno, Masini, Valero, Garulli e il più famoso di tutti, De Lucia."
12:07 Di pescatore ignobile - Giuseppe ANSELMI, Milano 1907-11-08 Ottimo tenore, il siciliano, anche se a volte canta aperto ed in modo non intonatissimo (giudizio personale). Aveva una particolare predilezione per l'accompagnamento pianistico e non orchestrale (tranne qualche raro titolo, tutti i brani che incise sono al pianoforte). L'unico motivo plausibile che mi viene in mente è il non enorme volume di cui disponeva che col pianoforte risalta decisamente meglio. Certo è che anche quando la Fonotipia (dal 1906/07 circa) iniziò ad incidere anche con accompagnamento orchestrale, Anselmi optò sempre per il pianoforte. Tranne nel 1912/13 quando incise qualche facciata per la Columbia italiana con accompagnamento orchestrale. Comunque se qualcuno ne sa di più, il suo intervento sia il benvenuto. Detto questo, fu un ottimo tenore, peccato che qualche volta l'intonazione sia ballerina ed il passaggio non impeccabile. Ma il timbro sensuale e la levigatezza d'accento lo pongono tra i migliori "amorosi" di inizio secolo, sicuramente superiore sia a Bonci che a Garbin. Secondo soltanto al sommo De Lucia (ribadisco: giudizio mio personalissimo).
"Lyda Borelli, Divine Icon of Style Borelli was born in La Spezia on 22nd March 1887 from Napoleone Borelli and Cesira Banti. Both her parents were theatre actors and it was only natural for Lyda to follow her parents’ steps. She debuted in a theatre play in 1902: at the time Lyda looked like an ethereal Pre-Raphaelite women and, in later years, she incarnated Gabriele D’Annunzio’s ideal of feminine beauty. At 18 she already played in main roles and soon became one of D’Annunzio’s favourite actresses. She starred in 1904 in D’Annunzio’s La Figlia di Jorio (The Daughter of Jorio) and the decadent poet and writer dedicated her Il ferro and Più che l’amore. In 1908 Borelli had already turned into an icon of style: many elegant women started imitating the way she dressed, moved and even suffered on stage. In 1913 she starred together with Mario Bonnard in her first film, Ma l’amor mio non muore (Everlasting Love) by Mario Caserini, one of the most famous Italian directors of silent films. The movie was very successful and consolidated her fame. Between 1914 and 1918 she shot 14 films and 2 documentaries; at the climax of her career she married count Vittorio Cini di Monselice, a powerful man and entrepreneur, and retired, devoting her life to her family (she had four children, Giorgio, Mynna, Yana and Ylda) living between Venice and Rome, where she died in 1959. Borelli combined the decadence of D’Annunzio’s heroines, French elegance and Italian beauty and her acting was mainly based on excessive gestures, painful expressions and languid gazes. She was essentially a dark femme fatale representing desire and sensuality. She often interpreted characters defeated by diabolical destinies who ended up killing themselves (often with poison - she died in 8 out of 14 films…). Some critics stated she had very limited acting skills and her talent stood in a very special power she had of turning through her gestures and movements unachievable, unattainable desires, dreams and illusions into a sort of tangible reality. Antonio Gramsci, who in 1917 worked as a theatre reviewer, criticised her stating she represented a heightened form of sensuality, “a part of a primordial and prehistoric humanity” that had managed to cast a spell on the audience. From a fashion and style point of view Borelli was very important for two main reasons: she had a favourite fashion designer, artist Mariano Fortuny (admired also by Eleonora Duse) and deemed his creations as vital in her films, and she started a peculiar phenomenon defined by the term “borellismo” and the verb “borelleggiare”, that, included even in encyclopaedias and dictionaries of the Italian language, mainly referred to women, meant to pose, dress and move like Lyda Borelli. Novelist Lucio D'Ambra wrote about her in 1937: “The new goddess eclipsed with her aesthetic prestige all the others; young Italian women literally moulded themselves on this sinuous statue that, struck by love pangs, harmoniously twisted and turned like a sensual music. Women at the time loved her grand gestures on stage and on the big screen and tried to imitate as much as they could those plastic yet sensual movements. What later on happened with Greta Garbo, had happened in Italy with Lyda Borelli a few years earlier. It was easy to meet in the literary salons and cafes, at the theatre and in the streets many little Borellis who starved themselves ending up looking like sinuously serpentine shadows, thin, wrapped up and draped in the shortest fabric swatches they could find among the stocks of the silk shops.” The "borellismo" trend only lasted a few years, disappearing soon after the actress retired. Today’s vapid celebrities and supposed instant icons of fashion and style dictating us how to dress and what to look like, should maybe ponder a bit about Borelli's life." From: www.irenebrination.typepad.com/irenebrination_notes_on_a/2010/11/lyda-borelli-divine-icon-of-style.html "Borelli, Lyda. Attrice cinematografica e teatrale, nata a La Spezia il 22 marzo 1884 e morta a Roma il 2 giugno 1959. Una delle prime dive del cinema muto, rappresentò sullo schermo l'ideale della femminilità liberty e dannunziana, enfatizzata da una gestualità lirica che divenne subito emblematica di uno stile recitativo. Figlia d'arte e sorella di Alda (Cava dei Tirreni 1879-Milano 1964), attrice teatrale anch'essa e interprete di alcuni film nel 1916 per la Tiber, la B. debuttò in teatro nel 1901 nella compagnia diretta da F. Pasta, riscuotendo un buon successo in La fortuna di A. Capus. Passò nel 1904 nella compagnia di V. Talli, la migliore dell'epoca, e recitò accanto a Irma Gramatica, Ruggero Ruggeri e Oreste Calabresi nella prima rappresentazione di La figlia di Iorio di G. D'Annunzio. Divenuta prima attrice giovane, recitò come protagonista insieme con Eleonora Duse in una rappresentazione straordinaria di Fernanda di V. Sardou. Il suo repertorio si estese quindi alle commedie brillanti: con la compagnia Fert diretta da E. Novelli fu la Salomè di O. Wilde in un'interpretazione di rilievo per l'atmosfera estetizzante che riuscì a creare intorno alla figura della protagonista. Nel 1913 esordì nel cinema con Ma l'amor mio non muore!, adattamento di un feuilleton diretto da Mario Caserini. Come Elsa Holbein, la spia che fa innamorare di sé il delfino di un immaginario principato dell'Europa centrale, B. interpretò il suo primo ruolo cinematografico di femme fatale. Il corpo esile ma voluttuoso fasciato in morbidi drappeggi, l'incedere languido, i gesti lenti e ben studiati, ritmati su un tempo per la prima volta squisitamente cinematografico, costruirono subito lo stereotipo della diva, eterea e raffinata, che sarà ripetuto quasi identico in tutti i film che seguiranno. Ancora nel 1913 girò La memoria dell'altro di Alberto Degli Abbati con Mario Bonnard; nel 1914 La donna nuda, adattamento di un celebre lavoro di H. Bataille firmato da Carmine Gallone, in cui impose e perfezionò i movimenti 'serpentini', l'uso enfatico del corpo e dello sguardo in una recitazione volutamente artificiosa, lontana da intenti realistici. Un gioco scenico iterato nei fremiti e nei languori della nobildonna che nelle vicende faustiane di Rapsodia satanica (1917) di Nino Oxilia, cede all'amore, tradendo così il patto col diavolo e votandosi alla morte. Interpretò altri film tratti da opere teatrali di Bataille, sempre per la regia di Gallone, Marcia nuziale (1915) e La falena (1916). Fu successivamente l'esuberante e intrepida Madame Tallien (1916), l'allucinata Marina in Malombra (1917), trasposizione di Gallone da A. Fogazzaro, in entrambi accanto ad Amleto Novelli. Furono gli ultimi grandi successi della B., che da allora lavorò in opere rivolte a soddisfare il pubblico con vicende tenebrose dominate da atteggiamenti fatali, modello di quella femminilità esangue ed estatica copiata poi in tutti i salotti dell'epoca. L'imitazione della diva divenne un fatto di costume, al punto che nuovi termini furono coniati per definirlo: 'borelline' erano le fanciulle smagrite che ondeggiavano nelle strade, 'borellismo' l'ossessione emulativa del pubblico femminile; 'borelleggiare' entrò nei dizionari coevi, per significare "lo sdilinquire delle femminette, prendendo a modello le pose estetiche e leziose dell'attrice Lyda Borelli" (A. Panzini, Dizionario moderno, 1923⁴, p. 74). Il film che concluse la carriera della B. fu La leggenda di Santa Barbara (1918), opera di propaganda commissionata dal Ministero delle armi e munizioni. Nello stesso anno sposò l'industriale conte Vittorio Cini di Ferrara, e abbandonò teatro e cinema." Margherita Pelaja www.treccani.it/enciclopedia/lyda-borelli_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
+Thomas Florio In fact, it is not an exaggeration to state that she was in the vanguard of those who created film acting and a template for “movie stardom.” Borelli entered the frame and invoked the viewer’s gaze; with a single gesture she sparked the collective desire: an immediate diva.
Alberto De Bassini (1) Il primo interesse che si trae dallo studio della vicenda artistica e umana di Alberto De Bassini è la data di nascita: 1847. Il secondo interesse invece si può ricondurre alla sua discografia: credo difatti che Alberto De Bassini sia l'unico cantante ad esser nato prima del 1850 vantando oltre 150 incisioni, le prime delle quali risalgono addirittura al 1897 (Berliner) e 1898/99 (i mitici cilindri del colonnello Bettini): tutte incisioni queste con suono estremamente precario, talune inudibili, altre più accettabili, altre con discreto suono, come gli Zonophone o alcuni Columbia americani in cui il cantante annuncia con la propria voce il titolo dell'incisione. Chiudo per un istante il capitolo sulla discografia per tornarci in seguito. Adesso mi piacerebbe approfondire la figura dell'uomo, la sua biografia, molto difficile da ricostruire però data l'estrema scarsità di informazioni che si hanno. In rete su di lui non c'è che quasi niente. Nei dizionari specializzati neppure, tranne una scarna voce nell'Enciclopedia dello Spettacolo curata da Rodolfo Celletti. Eppure è stato l'unico figlio di Rita Gabussi e Achille De Bassini, cantanti di fama internazionale e protagonisti di alcune prime rossiniane e verdiane di importanza storica. La madre, nata tra il 1810 e il 1815, probabilmente ha avuto voce e timbro da mezzosoprano ma ha alternato con grande frequenza ruoli da soprano a ruoli da mezzosoprano, il che poi non sarebbe qualche cosa di nuovo in un tipo di cantante attiva tra il 1835 e il 1850. Eccelleva anche nel genere brillante: esordì a Bologna nel 1835 come Fiorilla nel Turco in Italia e poco dopo inserì Cenerentola e Rosina. Intorno ai primi anni '40 conobbe Achille Bassi (detto De Bassini) e Gaetano Donizetti, il quale le riscontrò grandi doti ma pure l'ostinazione a cantare "alto", e cioè a sostenere con caparbietà ruoli troppo acuti per lei. Nel 1844, alla Scala si cimentò nell'Ernani con cui conseguì un successo strepitoso, sia di critica che di pubblico. Ma ciò le pregiudicò in breve la voce e, conseguentemente, anche la brillantissima carriera: all'ortodossia d'emissione preferì anteporre la calda veemenza drammatica del primo Verdi. Ritiratasi intorno alla metà degli anni '50 si dedicò all'insegnamento. Il marito Achille è poi stato tra i più importanti baritoni della prima metà d'800: scelto da Verdi per la prima esecuzione di Foscari, Corsaro e Luisa Miller, nel 1862 fu anche il primo Melitone nella prima della Forza. Verdi ravvisò in lui un'indole brillante, ma certo il suo terreno d'elezione rimase il repertorio da baritono nobile e patetico. Divenuto celeberrimo in poco tempo anche grazie alla voce di grande estensione e risonanza, è stato accostato dai critici dell'epoca sia ad Antonio Tamburini (che sostituì quando ormai era declinante all'Opera Italiana di Pietroburgo nel 1862) che, soprattutto, a Giorgio Ronconi, arrivando a conquistarsi la nomina affibbiatagli dai pubblici del nord-Italia come "secondo Ronconi".
Alberto De Bassini (2) Tornando invece alla carriera di Alberto De Bassini, figlio di cotanta ascendenza, si sa molto poco. Nato a Firenze ove la madre si trovava a cantare nel 1847, nel 1869 debuttava al Camploy di Venezia nel Belisario, forse in un ruolo secondario, accanto al padre Achille cinquantenne e vocalmente ancora integro. La voce non era eccezionale né per timbro né per consistenza, ma neppure mediocre. Al Camploy di Venezia nel 1869 cantò anche nei Lombardi come tenore, credo protagonista. S'avviò dunque ad una carriera di secondario livello tra Italia e Spagna e nel 1879 fu protagonista nell'Ernani a Pietroburgo. Al Paganini di Genova si presentò in Mignon e Carmen, fu al Rossini di Venezia nel 1882, all'Argentina di Roma e al Carcano a Milano, al Verdi di Padova nel 1883, all'Opera di Bucarest, al Regio di Torino (Mefistofele di Boito) e al Pagliano di Firenze (Gioconda) nel 1884, al San Carlos di Lisbona nel 1885, all'Alighieri di Ravenna nel 1887, al Politeama di Palermo e al Carignano di Torino nel 1888. Superata la quarantina cantava ancora l'Almaviva del Barbiere, ma riscosse notevoli successi anche come don José nella Carmen. Erano anni quelli in cui il repertorio dei cantanti, il gusto e le esigenze del pubblico mutavano repentinamente, lasciando molto spazio all'opera naturalista francese: non occorreva più solamente cantare bene, bisognava "agire", recitare", accentare con mago incisività, "vivere" il personaggio, abbandonare gli antiquati moduli stilistici romantici in virtù d'una nuova visione del teatro d'opera, più vicina e immediata ai generali mutamenti dell'epoca. Nel 1889 a Reggio Emilia si presentò con Mignon e Dinorah, ma apparve in lieve declino e dal 1890 decise di cambiare corda e divenendo baritono: con tale veste si presentò ai Filodrammatici di Milano come Figaro nel Barbiere e Laerte nella Mignon ma, sembra, con esito infelice. Ciò l'indusse ad emigrare negli Stati Uniti intorno al 1892 e a continuare ivi la carriera come baritono in compagnie secondarie. Le sue notizie in suo riguardo quì terminano. Sennonché iniziò ad incidere qualche anno più tardi, nel 1897, i primissimi dischi piatti Berliner e i cilindri Bettini (circa un centinaio!), ovviamente tutti come baritono. Alcuni critici, quando De Bassini si esibiva in Italia come tenore, riscontrarono pesanti discontinuità di rendimento: certe sere la sua voce si manifestava pesante e indurita, altre pieghevole e duttile. Ma anche l'uomo era discontinuo: carattere imprevedibile e bizzarro, soggetto al timore da palcoscenico, in talune circostanze scoppiava in forti attacchi d'ira. Raggiunse una buona fama come José, senza certo arrivare alla celebrità di Fernando Valero, il più celebre José del tempo, ma più d'un critico riscontrò dei limiti nel registro acuto. Strano: dalle sue registrazioni emergono per contro dei dei Sol acuti sorprendenti in quanto a pienezza e squillo. Ma emerge anche una serie di pregi e difetti - non pochi invero - tipici dei cantanti nati intorno alla metà d'800 e di matrice puramente romantica. Come s'è detto prima, i cilindri Bettini e i Berliner essendo tutte incisioni di suono assai precario, occorrerebbe concentrare l'ascolto sugli Zonophone e sui Columbia americani, tutti incisi tra il 1902 e il 1905, quando De Bassini aveva quasi sessant'anni. La voce è contraddistinta da un timbro chiaro, vibrante ma molto delicato e, al centro un poco caprino, mutando quasi colore e divenendo possente negli acuti. Così, in arie dalla tessitura centralizzante (tipo nella romanza "non è ver" attribuita erroneamente al Mattei) s'ascolta un baritono dalla voce normale che nel finale emette un Sol acuto enorme, tanto da cagionare addirittura una tal quale sproporzione nelle sonorità tra centro e acuti i quali hanno, più che volume, vibrazione e squillo. È la classica emissione di matrice romantica, con medium leggero e acuti pienamente "in avanti" e appoggiati nelle cavità di risonanza superiori della testa. Talune critiche lo segnalarono già in declino appena dopo i quarant'anni, come tenore. L'ascolto dei suoi dischi dà l'impressione di tutto fuorché d'una voce declinante. Sicuramente il mutamento di corda vocale, da tenore a baritono, gli ha giovato parecchio. Anche il gusto che lo sorregge ha molto del cantante da epoca 1840: i tempi, contrariamente a molti altri cantanti di questo tipo della medesima epoca, sono ben sostenuti senza indugiare nella lentezza, ma i malvezzi neppure si contano: riprese di fiato continue, arbitrarie e fuori stile, tendenza ora a frapporsi al testo del libretto ora al testo musicale, cadenze in stile barocco poco consone e in taluni casi di cattivo gusto, scarsa o totale assenza di incisività nel fraseggio del repertorio drammatico. Anzi, in ciò De Bassini è stato un cantante totalmente calato nel 1850, ovvero nell'epoca in cui la veemenza e l'espressività nel fraseggio si traevano esclusivamente dalle mere risorse vocali. Oltre alla pienezza degli acuti, però, fattore questo puramente estetico per inciso, c'è un quid in queste sue incisioni della preistoria del disco che viene fuori un po' velatamente, in tono sommesso, ma che sorprende più d'ogni altra cosa: la precisione nella vocalizzazione. E emerge proprio in alcune cadenze di gusto arbitrario. La levità con cui vocalizza fino al Sol bemolle acuto nella cadenza de "alla vita che t'arride" in parte riporta il pensiero alla leggerezza di Mattia Battistini, in parte catapulta l'ascoltatore ai moduli stilistici in voga nei baritoni della prima metà d'800. Il padre di Alberto De Bassini è nato nel 1819, è stato tra i più eminenti baritoni verdiani tra il 1842 e il 1852, credo possa essere più che legittimo individuare in questo tratto storico quel filo conduttore che unisce lo stile e la vocalità di Alberto De Bassini al padre. La stessa sensazione si prova all'ascolto dell'aria della Sonnambula, scritta per basso, almeno fino ai primissimi del '900 eseguita anche dai baritoni (come del resto accade col "vieni, la mia vendetta" della Lucrezia Borgia). La cadenza ha la precisione nella vocalizzazione di cui s'è detto. Lo stile di Alberto De Bassini è, per tutte queste ragioni, raro e personale. Non è nemmeno consueto trovare un baritono quasi sessantenne con voce così integra e compatta. Altra analogia con Mattia Battistini. Un'altra registrazione di indubbio fascino è il "non è ver", romanza da camera di fine '800, la quale contiene nel finale un Sol di sorprendente splendore di vibrazione. Lo stile e l'emissione di De Bassini, com'è evidente, stridono fortemente con l'accentazione e la brada foga dei cantanti prodotti dal verismo di primo '900. Trasferitosi negli Stati Uniti nei primi anni '90 d'800, Alberto De Bassini morì in data e luogo ignoti. Non saprei indicare se tristemente, se sopraffatto da debiti, se in vicissitudini economiche o altre peripezie del genere. Ma forse anche per questo la sua vicenda artistica e umana è affascinante.
19:40 Guai se ti sfugge un moto... Italian tenor DANTE DEL PAPA was one of the musical artists who made the acquaintance of socialite and recording pioneer Lieutenant Gianni Bettini (1860-1938). Bettini made hundreds of cylinder recordings of famous (and not so famous) singers in New York and Paris during the 1890s and early 1900s. Del Papa was frequently invited to Bettini’s Central Park South salon to make recordings, both as a solo artist and in ensembles. Although del Papa recorded scores of cylinders for Bettini (nineteen solo arias are listed in Bettini’s May, 1897 catalogue alone), only about a dozen of the tenor’s recordings are known to survive today. In this recording, del Papa is joined by soprano Rosalia Chalia (1863-1948) and baritone Alberto de Bassini (1847-1918) for the trio "Guai se ti sfugge un moto" from Donizetti's Lucrezia Borgia. This rare cylinder was made in New York at Bettini's studio in 1898. Dante del Papa (1854-1924) was born in Pisa and studied at the Milan Conservatory. Following a few local concerts in his hometown, the young tenor made his debut as the Duke in Rigoletto at the Teatro Mariani in Ravenna in 1879. During the course of the next fifteen years del Papa appeared in Rome, Florence, Milan, Bologna, Ferrara, Livorno, Turin, Barcelona, Amsterdam, Zagreb and Alexandria in such operas as Il Barbiere di Siviglia, Lucia di Lammermoor, Un Ballo in Maschera, I Due Foscari, La Traviata, Mignon, I Pescatori di Perle, Carmen, Faust, Pagliacci and Cavalleria Rusticana. He immigrated to the United States in 1894 and settled in New York where he sang for the New York Grand Opera Company. Del Papa was also a fixture on the opera stages of Philadelphia and Boston. Despite reports that he had been a “star” at the Metropolitan Opera, del Papa made a single appearance with the company, Turiddu in Cavalleria Rusticana, while the MET was on tour in Boston on April 12, 1895. In his early forties, del Papa began to curtail his operatic performances, concentrating more and more on concerts and recitals. The tenor founded a school of singing, The Verdi Grand Opera School, around 1900 and became one of New York’s most successful voice teachers. Although he retired from professional singing in 1903, del Papa was coaxed back to the stage for a few charity concerts in 1915 and 1916. At the time, the tenor was still in fine voice, despite his advancing age. Dante del Papa continued to teach from his New York studio until his death in 1924 at the age of seventy.
Il cilindro è il padre del disco piatto, fu in voga dal 1890 ca al 1908, epoca intorno alla quale soccombette definitivamente al disco piatto tradizionale. Gianni Bettini è stato un colonnello italiano con la passione della registrazione e, tra il 1897 e il 1903, realizziò tra Roma e New York alcune registrazioni, non solo di canto lirico. Ad esempio, nel 1903 registrò la voce del papa Leone 13º il quale, essendo nato nel 1810, risulta essere la voce più antica mai capitata dal fonografo.
Franceso Marconi (1) 9:14 Di pescatore ignobile 32:56 Madre, se ognor lontano Già per Giovan Battista Rubini, intorno la metà degli anni '20 d'800, s'iniziò a parlare di "lacrima" nella voce, languida espressione adoperata per indicare l'espressività, il sentimento dell'artista profuso nella parola cantata, come quasi lacrimasse realmente. C'è da dire anche che con Rubini iniziò un'epoca che poi rivoluzionò parte della storia dell'opera avendo egli creato il "mito del tenore romantico", ossia la figura del teatro lirico d'800 più affascinante e vagheggiata per tutto l'intero secolo fin tanto che, poi, la rivoluzione "verista" ne sovvertì le sorti. Il mito riconobbe miracolosamente i fasti d'un tempo intorno al 1923/24 allorché un tenore romano di nome Lauri-Volpi, con voce infiammata e spirito romantico, ne fece rivivere i bagliori per almeno un decennio. Tornando a Rubini, come si diceva in principio, si sa che di suoi epigoni se ne ebbe a iosa. I musicisti in generale ma specialmente i cantanti, più che dai trattati di canto o da applicazioni tecniche metodiche, imparano tramite imitazione. Sarebbe bene però quì porre un distinguo sostanziale tra i tenori d'800 e tenori del '900. I più eminenti tenori della seconda metà d'800, sebbene nel metodo di canto si rifacessero ai caposcuola Rubini, Donzelli, Nozzari e, successivamente, ai tenori angelici e di forza della metà del secolo i quali, a loro volta avevano mutuato gli stili vocali dei grandi inziatori, i grandi tenori di metà d'800, dicevo, ebbero stili e voci personalissime. Per contro, invece, la quasi totalità dei tenori del '900 fece propri i modelli vocali di Enrico Caruso in primis, poi di Beniamino Gigli e in parte Tito Schipa ma, nessuno di loro, in particolare dal 1940 in poi, riuscì accostarsi alla loro eccezionale statura artistica. Tornando ancora ai tenori d'800 e all'imitazione, non ricordo d'essere mai imbattuto in critiche del tipo "imitava pedissequamente questo o quest'altro", e così via. Una vicenda singolare fu proprio quella di Fernando De Lucia il quale, tra il 1878 e il 1884, al San Carlo di Napoli, era riuscito a udire Angelo Masini, Roberto Stagno e Julián Gayarre. Egli debuttò nel Faust nel 1885 proprio in quel teatro e, chi lo conobbe e l'udì dal vivo instaurò paralleli con quei semidei sopracitati non solo per lo stile, ma pure per le somiglianze di voce. Eppure, De Lucia riuscì a creare una individualità personalissima, unica. Francesco Marconi debuttò in Italia, probabilmente al Pagliano di Firenze, nel 1876, a soli ventuno anni. Dico probabilmente perché le date del suo debutto non sono certissime. Due anni dopo, al Real di Madrid, teatro del divo Gayarre, ebbe un trionfo nel Faust. Ma c'è una circostanza non secondaria da tenere in considerazione: chi udì Marconi al Pagliano nel Mefistofele e chi l'udì poi a Madrid lo accostò a Julián Gayarre e, in particolare, notò un filo conduttore tra la voce di Marconi e quella proverbiale "lacrima" nella voce che fece del navarrese il tenore più idolatrato della seconda metà d'800. Gayarre, intorno la seconda metà degli anni '70, era apparso in Italia e alla Scala, nella Favorita, suscitò reazioni che probabilmente non ebbero eguali fino all'avvento di Enrico Caruso. Filippo Filippi, rigido e temuto critico della Perseveranza, in quell'occasione parlò "non del debutto d'un tenore, ma d'un genio del canto". La sua popolarità crebbe a tale livello da imporsi come archetipo tenorile assoluto e idiscutibile, tutti i tenori dell'epoca medesima e della seguente impararono a imitarlo, chi più, chi meno, inevitabilmente. Credo che Marconi ebbe modo d'udire Gayarre a Roma. Fu proprio Gino Monaldi, nato a Perugia nel 1847, conoscitore dei più grandi cantanti d'800, ad aver udito Francesco Marconi al Pagliano nel 1876: l'impatto emotivo che ricavò dall'ascolto della voce dello sconosciuto tenore fu enorme e tale da indurlo non solamente ad instaurare un parallelo con Gayarre, in cui faceva figurare lo spagnolo in alcuni ambiti addirittura perdente rispetto al trasteverino, ma pure da portare il Monaldi, dicevo, a mettere per iscritto una delle più celebri critiche della storia della vocalità rivolta ad un singolo esecutore: "non dimenticherò mai la sensazione dolcissima da me provata nell'udire la romanza “dai campi dai prati„ cantata dal Marconi. Mi pareva di sognare! Eh! Sì che ne avevo sentito delle voci e dei cantanti! Eppure quella voce ero certo di non averla ancóra mai udita. La soavità del timbro, la purezza del metallo, la fermezza e la giustezza meravigliosa del suono, l'abbondanza e la resistenza fenomenale dei fiati, tanto che le note, piuttosto che da una laringe umana, sembravano date dall'arco d'un violoncello, tutto questo costituiva un insieme così bello e incantevole di cui non riuscivo a rendermi ragione. Ma è mai possibile - dissi ai miei amici - che un simile tenore canti quì, al Pagliano e che noi, venendo quì stasera, non ne conoscessimo nemmeno il nome?". Interessante e sorprendente il riferimento alla cavata del violoncello, usato dalla critica in seguito per indicare il velluto e la lacrima nel canto di Enrico Caruso. Quella critica uscì la prima volta nel 1906, con la 1ª edizione del "Cantanti Celebri". Da lì in poi, chiunque avesse voluto trattare sul tema "Francesco Marconi", ineluttabilmente si sarebbe rifatto a quello scritto del Monaldi. Prosegue ancora il Monaldi con un interessante raffronto: "la voce di Gayarre non possedeva l'aureo timbro di quella del Marconi. L'attacco delle note acute era meno spontaneo e impetuoso; in compenso però la voce del Gayarre - per la natura del suo colore - appariva più maschia e sonora e il velo che l'adombrava le aggiungeva talvolta una dolcezza incredibile. Ho udito il Gayarre è il Marconi in quasi tutte le opere del loro repertorio - quello del Marconi però più esteso - e posso dire che in alcune di esse, come la Borgia, gli Ugonotti e l'Africana, la somma del loro merito e il risultato di esso sulla scena mi è apparso così vicino da non saper decidere invero quale dei due superasse l'altro, anche d'un solo punto. Egli è che il Marconi ebbe il dono d'un istinto meraviglioso che lo spinse e lo fece cantare così, quasi inconsciamente, come cantano gli uccelli. Ma la cosa più mirabile è questa, che egli, nella sua natura vergine, sentì la nota del dolore come un vero grande poeta, e la sua voce ce ne fece sentire lo schianto fino alle lagrime". Tra fine '800 e inizio '900 il I tenore con la "lacrima" nella voce s'identificò con Enrico Caruso. A suffragio di tale nomina, il profluvio di incisioni lasciato dal napoletano costituisce eccezionale valore empirico. Gli imitatori che scaturirono dal fenomeno Caruso furono innumerevoli e la leggendaria "lacrima" fu imitata in principio anche da tenori eccezionalmente dotati, tipo il giovane Beniamino Gigli, i quali poi, assodate certo le eccezionalità vocali, di tutto avrebbero avuto bisogno fuorché d'imitare quella "lacrima". Tra Gayarre e Caruso vi fu altra generazione di tenori, fulgida invero di grandi tenori, almeno tre dei quali con la "lacrima": Fernando Valero (nato nel 1855), Alfonso Garulli (1856) e Francesco Marconi, tenori celebri tutti, legati nelle vicende umane e artistiche per varie ragioni. Ciò che lega Valero a Marconi anzitutto è un altro tenore: Enrico Tamberlick. Entrambi, difatti, beneficiarono dei suoi consigli e delle sue lezioni. Per Valero, Tamberlick rappresentò addirittura un mentore, un punto di riferimento cui si rifaceva nei primi anni di carriera. Oltre ciò, anche Valero fu sovente accostato al nome di Gayarre per la lacrima nella voce e per la calda espressività. Requisiti che la critica, come s'è visto col Monaldi, individuò anche nelle prestazioni di Marconi. Alfonso Garulli, bolognese, fu un altro tenore per cui l'identificazione con la "lacrima" e i "sentimenti" fu frequentissima. Addirittura per lui si vergò la definizione di "tenore del sentimento". Aveva la gola fragile però, e negli ultimi anni di carriera incorreva nelle stecche facilmente, come accadde poi a Marconi dalla metà degli anni '90. Fortunatamente Garulli lasciò una decina d'incisioni circa e la morbidezza, l'espressività e la facilità negli acuti portano il pensiero dell'ascoltatore alla morbidezza sfoggiata nelle prime incisioni da Marconi. Entrambi rappresentarono, comunque, un completamento al filone dei tenori angelici di metà '800. Il loro repertorio era vasto, partiva dal Barbiere per giungere all'Aida, e nel caso di Marconi addirittura all'Otello. Timbricamente la voce iniziava a prendere maggiore peso nonostante la chiarezza, e l'estensione fino al Do acuto consentiva d'incarnare sia la figura del tenore angelico tipo Rubini, sia la figura del tenore romantico cappa e spada in grado di cimentarsi in un repertorio come Puritani e Huguenots, il quale si fonda essenzialmente nella sensibilità dello stile patetico e nella prorompente energia dell'involo all'acuto.
Marconi (2) Nonostante la celebrità raggiunta, a Francesco Marconi non è mai stata dedicata una seria biografia degna di questo nome. In un necrologio apparso nel febbraio del 1916 nella Nuova Antologia, rivista di arti e cultura, pochi giorni dopo la morte del tenore, tale Giorgio Barini amico intimo di Francesco Marconi ne tratteggiò le più importanti tappe della sua vita, corredando il racconto con numerosi aneddoti poi riportati di pari passo nei ritratti curati da Arturo Lancellotti e Ulderigo Tegani apparsi molti anni dopo. L'aneddotica e il racconto tramandato è la rappresentazione classica della biografia d'un cantante del passato. La biografia critica d'un cantante, come genere letterario, è fatto più vicino alla nostra epoca. Nel 1947 Eugenio Gara, il decano della critica novecentesca, aveva reso mirabile esempio alla storia del teatro lirico con la stupenda biografia su Enrico Caruso sulla quale scia, poi, s'incardinarono altri lavori biografici. Ma almeno fino gli inizi degli anni '70 dello scorso secolo, il genere del racconto biografico sui cantanti lirici del passato fu intrapreso da chi quei cantanti l'aveva conosciuti e uditi personalmente, accantonando in molti casi qualsiasi velleità d'approfondimento meticoloso. Tornando ora a Francesco Marconi e al necrologio sopracitato del Barini, penso che tutto ciò che vi si riporta possa essere indicato come fonte attendibile per questi motivi: fu scritto nello stesso mese in cui l'artista morì (dunque con il racconto cronologicamente più o meno vicino alle vicende raccontante) e a comporlo fu un suo stretto amico, che conosceva anche la sua vita privata. Anzitutto occorre partire dalla data di nascita, sovente collocata indicativamente tra il 1853 e il 1855. Marconi, nacque il 14 maggio 1855 da una famiglia umile: suo padre gestiva un negozio di ferramenta. Lo sconvolgimento di cui fu protagonista in quegli anni lo Stato Pontificio mandò in crisi parte dell'economia della città e Francesco Marconi, spinto dai problemi economici della famiglia, sin dalla più tenera età fu costretto a impiegarsi in una falegnameria come adddetto alla costruzione di bare. Ma di questo ne andò fiero per tutta la vita. Pare che una volta divenuto celebre, irritato dall'attesa dell'arrivo del soprano Fanny Torresella per una prova, avesse iniziato a commentare con i colleghi irriverentemente sul soprano. Questi, giungendo proprio nel momento della battuta del Marconi, così a lui si rivolse: "si vede bene che siete stato un falegname!", "sempre pronto a farvi la cassa", le rispose Marconi dileggiandola! Oppure, poco prima di morire, passeggiando per Roma insieme con un amico, fermandosi innanzi un portone, così disse: "vedi questo portone alto quattro metri? L'ho fatto io, come le mie mani!". L'incontro con il canto fu fortuito. Nelle sere d'estate cantava nelle borgate di Trastevere e proprio per strada s'imbattè un giorno con il baritono romano Ottavio Bartolini, specialista a metà '800 del repertorio verdiano, nato nel 1821 il quale, ormai ritirato dalla carriera, prese a cuore l'insegnamento del canto. Sembra che fino a poco prima di morire, nel 1894, avesse mantenuto la voce ferma e potente come Antonio Cotogni. Aveva sposato la sorella del leggendario Tamberlick, Amalia, e dalla sua scuola uscirono, oltre a Francesco Marconi, anche il tenore stentoreo Francesco Signorini, il basso Paolo Wulman e, inizialmente, financo Giuseppe De Luca che passò poi nella scuola del celebre Persichini. La rinomatissima e gloriosa scuola romana di fine '800 fondava i suoi cardini sulla morbidezza d'emissione e la chiarezza della dizione. Educare la voce del Marconi non dev'essere stata impresa scabrosa: a parte l'eccezionalità del timbro aureo, sin da giovanissimo egli dimostrò d'essere governato da un istinto musicale superiore e la voce toccava facilmente al Do di petto, ma occorre anche precisare che più d'una critica in suo riguardo, almeno fino ai primissimi degli anni '80, ebbe modo di sottolineare il non grande volume. Artista umile, certo, ma eccezionalmente dotato vocalmente, seppe gestire il patrimonio vocale con l'oculatezza insegnata da Bartolini. Marconi, dopo un non lungo periodo di studi, era già pronto per debuttare in un luogo dell'importanza del Teatro Real a Madrid, nel Faust, anno 1878. Aveva solo ventitré anni, ma il successo che riportò gli schiuse nell'immediato le porte della carriera internazionale. La voce, oltre ad essere caratterizzata dal timbro personalissimo e prezioso, veramente aureo, era omogenea in tutti i registri, fatta d'un unico metallo, dal Si bemolle basso al Do acuto. Nel gennaio del 1880 si presentò alla Scala nel Rigoletto apparendo come il migliore del cast, e il critico del "Pungolo" lo paragonò al celebre Antonio Giuglini (o Giulini), epigono di Rubini e tra i più eminenti tenori di grazia di metà '800: "[Marconi] è un tenore alla Giulini, ha una voce sottile ma calda, appassionata, vibrata, ha degli acuti bellissimi, limpidi nitidi e sicuri, fraseggia con sentimento ed effetto. A questi lumi di luna tenorile, Marconi è una vera «trouvaille». Egli cantò bene anche se in preda ad una viva emozione che non riusciva inizialmente a padroneggiare. Ebbe calorosi applausi, disse molto bene il duetto con Gilda e trionfò nella canzone del quarto atto". Così, quanto riportato dal "Pungolo". Era l'epoca in cui il Rigoletto poteva reputarsi come il cimento d'antonomasia per un tenore "di cartello". Era inoltre in voga la consuetudine di bissare, trissare sia la ballata iniziale e la canzone dell'ultimo atto, tanto che divenne celebre ciò che disse Gayarre, "ogni volta che canto quell'opera debbo farlo due o tre volte per sera", e a ogni esecuzione del "questa o quella" e della "donna è mobile" il pubblico esigeva sempre varianti differenti l'una dall'altra. Già Angelo Masini, tenore stimato da Giuseppe Verdi, aveva inventato sette cadenze per la "donna è mobile", e Marconi non fu da meno. Pare però che Verdi, dell'invalsa tradizione, non fosse contento affatto. A Montecatini, ove il Maestro passava l'estate tra i bagni termali, un giorno incontrò proprio Francesco Marconi, il quale si vantava di eseguire "la donna è mobile" in sei maniere diverse, al che Verdi irritato replicò: "fuorché come l'ho scritta io!". Il mese successivo, febbraio 1880, sempre in Scala, Marconi si produsse nella Gioconda accanto alla celebre Mariani Masi e Gustavo Moriami, ma dando luogo a riserve, non essendo la sua voce in condizioni ottimali: "il signor Marconi, artista tanto simpatico al nostro pubblico che tanto l'applaudì nel Rigoletto, non trovavasi in detta sera nella condizioni migliori", stando all'"Affondatore". Al Concordia di Cremona, nel settembre del medesimo anno, in Gioconda la sua voce suscitò sensazione: "ha una voce insinuante e vellutata che con la musica del «cielo e mar» suscita una tempesta di reminiscenze e affetti. È giovane, è bello e canta con molta passione". Ma il critico de "La Bandiera dell'Operaio" così si espresse riguardo l'intensità della voce: "sulle prime si credeva che il signor Marconi mancasse di voce, ma nel duetto con Barnaba dimostrò quali fossero i suoi meriti artistici. Sebbene la sua voce sia ad un timbro che rasenta l'esilità, pure la grazia con cui eseguisce specialmente la romanza del secondo atto, dimostra in lui un tenore della tempra del Bolis". Il 26 dicembre 1880, all'Apollo di Roma, l'impegnativo cimento con l'Aida accanto a Marie Louise Dourand fece sembrare superati i limiti dell'intensità della voce precedentemente rimarcati da altre critiche: "il Marconi ha una voce stupenda che fece meravigliare tutti coloro che ancora non l'avevano sentito. È una voce robusta, sempre chiara e di una freschezza inalterabile. Il pubblico gli diede un diluvio di applausi specialmente nel "celeste Aida", di cui si richiese il bis, dopo che il Marconi ebbe emesso un bellissimo Si naturale [in realtà Si bemolle]". Probabilmente la voce aveva subito una prima evoluzione, da tenore di grazia puro a tenore drammatico. Non è fatica crederlo, grazie anche alla pienezza degli acuti che il tenore lascia udire nel suo splendido primo blocco d'incisioni del 1903. Intanto, mercé la straordinarietà della voce e i lusinghieri trionfi, s'era fatto notare nientemeno che da Giulio Ricordi, che lo indicò a Verdi come un possibile tenore di cartello per il Boccanegra scaligero del 1881: "io le prometto in poche ore combinare una compagnia di gentiluomini e di artisti veri, dai quali Essa avrà non la deferenza, ma la compiacenza di ottenere tutti gli effetti: Moriami, Mariani, Marconi e forse Nannetti [celeberrimo basso rappresentante della scuola romana nonché rinomato insegnante di canto]". Così Giulio Ricordi in una missiva del febbraio 1881. Il 22 gennaio del 1881, sempre all'Apollo di Roma, apparve nel Faust incassando nuovo grande successo e ponendosi come il migliore della compagnia: "il Marconi in soli due anni ha percorso un lungo cammino e adesso egli è la, dove molti sarebbero contenti di finire. La sua voce melodiosa bella e chiara la emette senza sforzo alcuno, con un'intonazione perfetta anche senza lo sfoggio di tanti urli emessi in falsetto, che formano la fama di qualche altro tenore. Ciò non toglie Che egli non sappia procurarsi un subisso di applausi per il potente Do di petto che, con una naturalezza unica, ci regala nel terzo atto. Però apprezzo più di lui il sentimento e il gusto artistico. Le imprese se lo contenderanno. Degna compagna di lui fu la signora Durand". Così il critico dell'"Affondatore".
Marconi (3) La celebrità ormai l'aveva invaso e sempre nel 1881 iniziò a prodursi in Russia, all'epoca feudo incontrastato di Angelo Masini. Quì Marconi fu definito "splendido artista" assieme con Cotogni. Fino al 1884 cantò principalmente in Russia, favorendo Traviata, Lucia, Huguenots e Don Giovanni e Gioconda, sovente eseguite accanto a Cotogni. Il decennio 1882-1892 vide Marconi protagonista anche al Covent Garden, Buenos Aires, Liceo di Barcellona e Gaité di Parigi con i Puritani: di lui nuovamente si disse d'aver voce simile a quella di Gayarre, "graziosa", e di fraseggiare con gusto e calore. Il 1888 fu impiegato per la prima volta in una tournée a New York con Italo Campanini in veste d'impresario per l'Otello di Verdi con Marconi protagonista, Eva Tetrazzini, Galassi come Jago e Cleofonte Campanini, fratello di Italo, come direttore. Ma Marconi andò incontro un clamoroso insuccesso tanto da indurre il tenore Italo Campanini, di dieci anni più vecchio, a protestarlo e cacciarlo: prese parte egli stesso alla prima recita come Otello. L'impresa tuttavia non riuscì nemmeno a Campanini, e la compagnia si sciolse poco dopo. Nonostante Marconi avesse solamente trentatré anni, il periodo aureo iniziava per lui a tramontare, sembra anche piuttosto repentinamente. Dal 1891 circa gli capitava d'incorrere con certa frequenza nelle stecche. A Madrid, nel 1892 fu fischiato dopo aver steccato durante un'esecuzione dell'Otello, probabilmente partitura veramente sopra i suoi mezzi naturali. Subito dopo al San Carlo di Napoli la voce parve impoverita nella freschezza e nella sonorità. Nel 1893, a Madrid, steccò un acuto nella cadenza del "questa o quella"E sempre a Madrid, nel 1895, fu costretto ad abbassare le tonalità degli Huguenots. Ma tra le serate più negative che della sua carriera si ricordano, occorre citare indubbiamente quelle dei Puritani dati alla Scala nel 1897, in sostituzione di Bonci protestato. Non mancarono però sprazzi dell'antica grandezza: "L'aspettazione è grande. Marconi comincia le prime note del paradisiaco canto "a te, o cara, amor talora" e tutti ne ammirano la bella voce gustata già altre volte (sono molti anni) alla Scala. Ma si formò comune ammirazione il dono che madre natura vuole fare a Marconi - che dispone tuttora di un organo vocale raro a trovarsi - non fu così per il modo di cantare. Evidentemente cerchi teatri dell'estero hanno corrotto il gusto di questo artista. Il Marconi interpreta Bellini in modo affatto arbitrario, spesso lezioso, rallentando e affrettando i movimenti quando meno necessiterebbe, abusando del falsetto e con punture non felici". Questo fu il critico del Secolo, 26 febbraio 1897. In realtà, ad onta delle sempre più frequenti serate poco felici, più che di decadenza vocale si potrebbe parlare di decadenza di gusto. In ciò, Marconi non fu dissimile ai suoi contemporanei tipo De Lucia, nelle cui esecuzioni l'arbitrarietà e la tendenza a sovrapporsi alla parte creavano grossi squilibri stilistici in quel tipo di melodramma. Ma ancora nel dicembre 1898, a San Pietroburgo ottenne un nuovo trionfo nel Faust: "al Grand Théâtre du Conservatoire, il tenore Francesco Marconi canta Faust con Mattia Battistini e Vittorio Arimondi. Marconi è acclamato protagonista", Il Trovatore del 9 gennaio 1899. Nel 1903, anno delle sue prime incisioni, a Pietroburgo ottenne caloroso successo con l'Evgenij Onegin accanto a Battistini e Navarrini: "L'opera eseguita bene in lingua italiana fu data in onore di Marconi che entusiasmò il pubblico, specialmente nella celebre romanzo del terzo atto prima del duello, dovendola ripetere fra scrosciare di applausi. Battistini fu, come al solito, sommo". Effettuò due blocchi d'incisioni per la Gramophone, nel 1903 e nel 1908, che non hanno mai goduto di interamente di ristampe fino al 1989, allorché l'inglese Symposium le ristampò in due Cd separati. Debbo confessare che sempre mi ha provocato un filo d'irritazione la sottovalutazione delle incisoni di Marconi da parte della critica, italiana soprattutto. Il primo blocco del 1903, formato da una dozzina di facciate, contiene pezzi unici. La voce è ancora duttile, soprattutto morbida, anche se la tecnica d'incisione rudimentale dell'epoca danneggia più di tutto il timbro, che appare sfocato. Ciò che maggiormente colpisce è la spontaneità della mezzavoce. Questo leggendario tenore, ad onta del declino, nel 1903 era capace ancora di grandi momenti, sia come vocalista che come interprete. Il celestiale attacco del "cielo e mar", la spontaneità dei portamenti di voce e la mezzavoce nel Sol acuto de "o sogni d'or" hanno, tolto solamente Beniamino Gigli, ben pochi paragoni nella storia del disco. L'"o paradiso" mette in rilievo, oltre alla già citata stupenda mezzavoce, la leggendaria altèra tracotanza che i tenori di scuola romana avevano nel registro acuto. Infine, la romanza "non guardarmi così" di Paloni eseguita con toccante espressività, si conclude con un La naturale acuto emesso a mezzavoce e ridonando in disco, a Marconi, leggendario tenore, tutta la grandezza del suo mito. Il secondo blocco d'incisioni realizzato nel 1908, contente tra l'altro l'unico disco commerciale inciso da Cotogni, presenta il tenore in declino e costretto ad abbassare di tono numerose arie (addirittura il "dai campi dai prati" inciso in tono nel 1903, cinque anni dopo è abbassato d'un tono intero). Visse gli ultimi anni della sua vita in discreta agiatezza. Fred Gaisberg racconta che le incisioni vennero realizzate nel castello di proprietà del tenore. Ebbe due figli che chiamò con i nomi degli Ugonotti Valentina e Raoul. Affetto da problemi cardiaci, si spense sessantenne nella sua Roma, nel 1916. facebook.com/groups/grandivocidelpassato/permalink/587167704787962/
Marconi ha i suoi difettucci, tanto più che era ormai fuori carriera. Ma è affascinante. Si sente un patrimonio vocale di qualità, anche se consunto, si sente la tecnica, che gli consente ancora di sopperire alla grande all'usura della voce, si sente il grande temperamento, si sente un gusto che non è affatto volgare. L'avranno pure accusato di essere arbitrario e lezioso, ma a giudicare da questi dischi direi che c'è abbondantemente di peggio tra i suoi contemporanei come musicalità, esibizionismo, caccole e birignao. E' un tenorismo antico che mi piace, in cui si riconosce il seme buono che poi è passato attraverso la scuola romana alla generazione successiva. Ok? Ma non ci sono altri dischi??? Ancora, ancora
I dischi di Marconi sono tutti difficili da trovare eccetto il duetto con la Galvany che e' molto comune. Anche perche' venne ristampato per molti anni nel catalogo storico della VDP.
19:40 Guai se ti sfugge un moto.... Rosalia CHALIA, soprano cubano nato nel 1863, non aveva mai la grande celebrità di molti soprani coevi, cioè: svolse una modesta carriera nella sua patria, e fuori il suo continento apparse solo a Philadelphia (nel 1894 nei panni di Aida) e una volta al Metropolitan Opera (nel 1898 come Santuzza). Incise, come molti cantanti dell'età di pietra del fonografo, non pochi dischi (compreso moltissimi cilindri Bettini, molti oggi scomparsi), tra cui il maggior interesse sontengono quelli fatti nel 1900 per Zonophone. Ma forse non ho detto la verità - non solo sontengono interesse, ma lasciano un ascoltatore con una bocca aperta. Se penso ai registrazioni di molti soprani nati tra anni '60 e '70 di ottocento, anche altamente celebri e importanti, mi ricordo voci sbiadite, fisse, malferme, disuguali. E questo, stranamente, non è certo riconducibile al canto che s’evince dai vetusti dischi di Rosalia Chalia - soprano quasi dimenticato anche da collezionisti e, come ho detto, d'una carriera molto modesta. Voglio dire subito che la cosa che può disturbare l'orecchio dell’ascoltatore dei suoi dischi è l’abuso del registro di petto - sgianciato dai centri, spesso aperto e emmesso nella posizione troppo bassa - una cosa comune per soprani di primo ‘900. Per il resto, la voce della Chalia in disco è caldissima, intensa, ricca d’armonici, risonantissima, ha un volume e una purezza dell’emissione nella zona medio/acuta quasi incredibili. Emblematico in questo senso è l’incisione dell’aria del Ballo in Maschera, dove la cantante emmette un Do acuto vellissifero, perfettamente “in maschera” e d’una purezza transcedentale. Lo stesso accade nel disco dei Cieli azzurri, dove il Do - a misura un po' minore rispetto al Ballo, però - è davvero imponente. E questo nei vetustissimi dischi del 1900, incredible!!! Ma ancor più colpiscono le incisioni del repertorio belcantistico-rossiniano, cioè: due brani del Barbiere di Siviglia (tra cui due parti della scena di Rosina e il duetto ‘Dunque io son’, inciso con il leggendario baritono Alberto de BASSINI) e l’aria di Semiramide, dove la Chalia mostra una notevole capacità nel florido canto d’agilità: i difficilissimi passaggi, le fiorettatture, i trilli (specie nell’aria di Rosina, dove la cantante esegue agilità usate principalmente dai soprani leggeri) sono nitidissimi, quasi mai pesanti, frenati o pasticciati. E questo è cantanto da un soprano da voce grossa, in grado di emmettere acuti sfolgorantissimi nei ruoli pesanti e “sanguini” tipo Amelia. Ecco il vero soprano “Drammatico Coloratura” all'antico.
E’ con il Verismo che il cantante si fa obbligatoriamente attore (attore secondo il canone di una Duse, cui spesso la Bellincioni fu paragonata): la diffusione del nuovo genere coincide con l’era del disco, e ad esse si accompagna, come mai prima di allora, l’arte fotografica, come aveva insegnato l’indiscusso maestro del Verismo Giovanni Verga. Immagine e suono, scena e canto sono continuamente contaminati da prosa e cinema muto, ed il gusto li accomuna in un universale sentire al di sopra delle righe, nell’esasperazione dei toni, ora languidi ora drammatici, ora isterici, ora lirici. E ciò coinvolge uomini e donne. Le pose della diva stigmatizzata da FloriaTosca (pensate una cantante che fa la parte della cantante) hanno il loro parallelo in Paolo il bello o in Loris Ipanoff.
Ines De Frate...just incredible. What great support !
Grazie per le preziosissime testimonianze!
This recording is very much appreciated. Thank you for this posting.
Alessandro Bonci is my favourite bel-canto tenor, a Golden voice with full of expressions.
DESCRIPTION
A gondola appears and a masked woman hurries over to the sleeping Gennaro and observes him with affection:
0:00 Com’è bello, quale incanto - Celestina BONINSEGNA did achieve considerable success on 78-rpm gramophone records, being one of the first lyric-dramatic sopranos whose voice recorded well. Critics particularly admired her relatively smooth vocal delivery and the dignity and refinement that she gave to the vocal lines of the music.
2:53 Maria DE MACCHI sang the title role in the Met's only performance to date of "Lucrezia Borgia". Interesting to hear her "Com’è bello, quale incanto". In 1904 she made guest appearance at the Met; here she sang the title role in Lucrezia Borgia together with Enrico Caruso. In 1909 she appeared for the last time in Rome as Lucrezia.
Gennaro expresses his love for her and sings of his childhood as an orphan brought up by fishermen. He adds that he loves dearly the mother he has never met:
9:14 Di pescatore ignobile - 32:56 Madre, se ognor lontano - Francesco MARCONI. The operatic parts that Marconi undertook in Europe and the two American continents included the principal tenor role in Lucrezia Borgia. Famed during the peak of his career for the silvery beauty of his singing, the ease of his high notes and the spontaneity of his interpretations.
The Duke, believing Gennaro to be Lucrezia's lover, plots his murder...
14:41 Vieni la mia vendetta - Qualunque sia l'evento - Francesco NAVARINI. He made his debut in 1876 at the Teatro Comunale of Ferrara as Alfonso in Lucrezia Borgia.
Lucrezia denies any impropriety, but the Duke demands the prisoner's death and forces her to choose the manner of Gennaro's execution. Pretending to pardon him, the Duke offers Gennaro a glass of wine and he swallows it:
19:40 Guai se ti sfugge un moto - Alberto De Bassini (Baritone) (Firenze 1847 - Milan?) was not very successful in Italy, and in 1898 he emigrated to North America.
Gennaro seizes a dagger and attempts to kill Lucrezia, but she stops him by revealing that he is in fact her son. Once again she asks him to drink the antidote, but this time he refuses, choosing to die with his friends:
26:54 M'odi, ah m'odi - Ines DE FRATE (Alexandria1854, Egypt - Milan 1924) Norma at La Scala 1898-1899. Records made for HMV in Milan, including arias from Aida, Nabucco, Lucrezia Borgia, Norma. A 1908 letter in the EMI archives recommends de Frate to the head office in England: "Madame De Frate although she has had 20 years career is still a fine dramatic soprano with fine old classic school so rarely to be found today". Rubato full of expressive hesitations.
Gennaro draws his last breath in his mother's fond embrace:
32:56 Madre, se ognor lontano - one of the most glorious floating endings of the belcanto repertoire:
"The Original Finale of Lucrezia Borgia": ua-cam.com/video/d0HaLr-Fwk4/v-deo.html
The closing cabaletta "Era desso il figlio mio" was added by Donizetti upon insistence by renowned soprano Henriette Méric-Lalande, who created the role of Lucrezia Borgia. Donizetti later removed the cabaletta because he believed it damaged the credibility of the ending. This original finale of Lucrezia Borgia is the way Donizetti wanted the opera to end, without that flashy cabaletta, as glamorous as it turned out. He was right of course. The entire score was waayyy ahead of its time for 1833.
Although I like "Era desso" (as much as I like any cabaletta), this version DOES make way more sense to me. And I've heard people complaining about Donizetti setting tragic texts to lively, major-key melodies... that cabaletta pushes quite a bit in that direction. But the finale here is so simple and effective, and thanks to Francesco Marconi, who sings it with great abandon, really suggest itself as the better way for Lucrezia's misery to sublimate... so "Wagnerian"!
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Robert merrillsinger baritone
DESCRIZIONE
0:00 La BONINSEGNA... In effetti è tra le prime voci di soprano a risultare pastosa in disco, omogenea e stupendamente emessa. Ha scarsa personalità però, manca di autentico abbandono e di accento tragico.
2:53 Maria DE MACCHI (1870-1909) studiò con Virginia Boccabadati, come la Boninsegna, e debuttò come contralto, nel 1889, come Laura in Gioconda a Brescia. Dotata di una voce suntuosa, dal timbro scuro e regale, rispettosa delle regole fondamentali del legato ottocentesco, giunse alla Scala, come soprano, per una ripresa de La regina di Saba, nel 1901 diretta da Toscanini. Al Metropolitan nel 1904 fu Lucrezia Borgia accanto a Gennaro impersonato da Enrico Caruso; l'ultima sua apparizione in teatro prima della morte, la vide ancora nell'opera di Donizetti a Roma, dove già era stata al Costanzi come Lucrezia Borgia nel 1904.
6:28 Alessandro BONCI e 9:14 Francesco MARCONI sono nonostante i suoni un poco aperti al centro, nonostante le libertà
ritmiche ed agogiche, nonostante certi patti con il solfeggio e il ritmo capaci con una sola frase con un rubato di evocare per magia l’eroe romantico, il giovane innamorato. Le libertà di Marconi in fatto di tempi e dinamica si risolvono in una esecuzione dolcissima, sfumatissima, veramente protoromantica, ma per nulla sdilinquita o asettica.
12:07 Giuseppe ANSELMI - Grande tenore, è l'emblema della voce "di grazia" di primo '900, non grande volume ma timbro, vibrazione, brillantezza e impasto personalissimo. Ha il languore e l'eleganza salottiera dei grandi tenori della sua epoca.
14:41 Basso Francesco NAVAR (R) INI (1855-1923) debutta a Treviso come il Duca Alfonso in Lucrezia Borgia. Si esibisce in tutta Italia e al Teatro alla Scala di Milano tra il 1883 e il 1899, in questo teatro il 5 febbraio 1887, crea il personaggio di Lodovico nella prima assoluta dell' Otello di Giuseppe Verdi. Si ritira dalle scene nel 1914.
19:40 Un vero inconeabulo risale al 1898 cantato da Alberto De BASSINI con Dante Del Papa e Rosalia Chalia
24:23 Elena TEODORINI. Voce ambigua, che esibisce, oltre ad un cospicuo e per il nostro gusto ostentato registro
grave, libertà di tempi che oggi sarebbero censurate. Nel caso di specie il rallentando prima e l’accellerando, poi, su “il veleno a prevenire” hanno una carica drammatica estranea alle esecuzioni attuali. Dello stesso livello, con un uso molto marcato del registro di petto la registrazione di
26:54 Se sentiamo Ines de FRATE desta stupore la discesa con un suono di petto ampio, sonoro al re grave di “serbarmi in VITA” e la facilità con cui sostiene un tempo lentissimo staccato all’inizio della romanza. La libertà di tempo non serve, in questo caso al solo sfoggio vocale, ma alla resa della situazione scenica, vedi, dopo che la cantante ha esibito un timbro malinconico ed il tempo lento delle prime frasi, il primo accelerando di Ines alla ripetizione di “mille volte al cor ferita” o il rallentando e stringendo sulla frase “non voler incrudelir”. Quando arrivano le frasi conclusive c’è un vero colpo di teatro perché la cantante accelera sulle frasi, che riguardano il dramma “il tempo vola” e su cui cadono le varianti acute e rallenta e addolcisce su tutte quelle di supplica a Gennaro a bere l’antidoto. Geniale. Aggiungo che la dizione della de Frate è scolpita e si comprendono tutte le parole senza che la cantante risulti eccessiva (siamo all’epoca dell’avvento del Verismo e la de Frate stessa cantò titoli veristi). www.corgrisi.com/2016/01/comparare-linterpretazione-vocale-lucrezia-borgia-by-caballe-de-frate-von-seebock/
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Great recordings so lovingly restored. Thank you.
Thank you very much … wonderful experience, great job
A huge thankyou to you is due for the wonderful archives of 78rpm vintage recordings that you have assembled for public delectation - every one a gem! many thanks for this lovely selection! I loved every second of these performances and of how you put them together.
un video a dir poco stupendo. Lyda Borelli semplicemente fantastica...
grazieee!!!
26:54 Se sentiamo Ines de Frate desta stupore la discesa con un suono di petto ampio, sonoro al re grave di “serbarmi in VITA” e la facilità con cui sostiene un tempo lentissimo staccato all’inizio della romanza. La libertà di tempo non serve, in questo caso al solo sfoggio vocale, ma alla resa della situazione scenica, vedi, dopo che la cantante ha esibito un timbro malinconico ed il tempo lento delle prime frasi, il primo accelerando di Ines alla ripetizione di “mille volte al cor ferita” o il rallentando e stringendo sulla frase “non voler incrudelir”. Quando arrivano le frasi conclusive c’è un vero colpo di teatro perché la cantante accelera sulle frasi, che riguardano il dramma “il tempo vola” e su cui cadono le varianti acute e rallenta e addolcisce su tutte quelle di supplica a Gennaro a bere l’antidoto. Geniale. Aggiungo che la dizione della de Frate è scolpita e si comprendono tutte le parole senza che la cantante risulti eccessiva (siamo all’epoca dell’avvento del Verismo e la de Frate stessa cantò titoli veristi). www.corgrisi.com/2016/01/comparare-linterpretazione-vocale-lucrezia-borgia-by-caballe-de-frate-von-seebock/
Lovely! thanks. YF, M.
2:53 Maria de Macchi (1870-1909) sang the title role in the Met's only performance to date of "Lucrezia Borgia". Interesting to hear her, thx for the upload :)
La De Macchi, celeberrimo soprano dell'epoca, è deludente. Ma può essere che all'epoca della incisione fosse già in declino.
Gianluigi Cortecci: "Non è ancora del tutto facile ricostruire la vita e la carriera di Maria
De Macchi, soprano piemontese. Non compare nemmeno nelle "Grandi Voci".
Innanzitutto, difficile stabile con certezza la data di nascita. La
quale è quasi certamente da collocare al 1870, ma c'è chi l'antepone al
1867, come il Dizionario Biografico degli Italiani. Non del tutto
chiari anche i suoi studi. Pare si sia formata con Virginia Boccabadati
Carignani, soprano Italiano nato nel 1828 e in attività dal
1847, stimata da Giuseppe Verdi, il quale pur riconoscendole mezzi non
eccezionali e voce non grande, ne ammirava le indubbie qualità
stilistiche, la duttilità e l'estensione. Certamente, per la De Macchi,
formazione romantica in quanto concerne gusto, stile e tecnica. Ma
avendo anch'ella debuttato in piena epoca verista, alternò costanti
rappresentazioni di opere romantiche , tipo Aida e Ernani, a lavori
della nuova generazione, che fervidamente accolse nel proprio repertorio
ad onta dell'estrazione romantica della sua personalità. Dunque,
accanto a numerosissime Aida, Lucezia, Ballo, alternava Cavalleria,
Fedora e Gioconda, di cui divenne interprete di riferimento nei
primissimi anni del '900. Pur avendo avuto grande carriera
internazionale con frequentazioni al Metropolitan, al San Carlo di
Lisbona e a Philadelphia , in Italia cantò pochissime volte alla Scala e
non riuscì mai a discostarsi dall'onesta provincia, principalmente a
causa di forti problemi cardiaci che le avevano procurato alcuni
insuccessi, e a causa dei quali soccombette nel 1909 in una clinica
milanese, a soli trentanove anni. Ha inciso non poche facciate per la
Fonotipia, alcune delle quali mai pubblicate, tra cui
un'interessantissima scena del Nilo con Giuseppe Taccani del 1907. Dalle
registrazioni, le qualità della voce emergono senza ombre. Voce
poderosa da soprano drammatico di bel colore, anche se non
personalissimo, vanta omogeneità, estensione e squillo, nonché
un'emissione che antepone sempre la costante morbidezza e purezza del
suono anche in opere tipo Cavalleria. Difatti, il duetto tratto da
quest'opera e inciso col tenore Ventura, è un esempio di come
s'intendeva il verismo prima dell'avvento di Eugenia Burzio e Enrico
Caruso : assenza quasi totale di platealità nell'accento, declamato più
composto e statico rispetto agli interpreti di qualche anno dopo e
vocalità imperniata tutta sulla rotondità del suono nel medium e nella
dinamite dello squillo nell'acuto. Anche il tenore Ventura è emblematico
in quest'ambito, timbro da "mezzocarattere", rappresenta un po' il tipo
dei primissimi tenori veristi, tutti d'estrazione romantica e quasi
tutti tenori di grazia: Stagno, Masini, Valero, Garulli e il più famoso
di tutti, De Lucia."
Dica anche il titolo del film a questo punto ,: Malombra.... Grandissimo post come al solito e i cantanti tutti davvero fantastici ! Grazie!
12:07 Di pescatore ignobile - Giuseppe ANSELMI, Milano 1907-11-08
Ottimo tenore, il siciliano, anche se a volte canta aperto ed in modo non intonatissimo (giudizio personale). Aveva una particolare predilezione per l'accompagnamento pianistico e non orchestrale (tranne qualche raro titolo, tutti i brani che incise sono al pianoforte).
L'unico motivo plausibile che mi viene in mente è il non enorme volume di cui disponeva che col pianoforte risalta decisamente meglio.
Certo è che anche quando la Fonotipia (dal 1906/07 circa) iniziò ad incidere anche con accompagnamento orchestrale, Anselmi optò sempre per il pianoforte. Tranne nel 1912/13 quando incise qualche facciata per la Columbia italiana con accompagnamento orchestrale. Comunque se qualcuno ne sa di più, il suo intervento sia il benvenuto.
Detto questo, fu un ottimo tenore, peccato che qualche volta l'intonazione sia ballerina ed il passaggio non impeccabile. Ma il timbro sensuale e la levigatezza d'accento lo pongono tra i migliori "amorosi" di inizio secolo, sicuramente superiore sia a Bonci che a Garbin. Secondo soltanto al sommo De Lucia (ribadisco: giudizio mio personalissimo).
great video. I love Lyda... lovely actress and great opera too. She has a very entrancing beauty. Thank you for shedding some light on this gem.
EVVIVA IL PASSATO !!!!!
"Lyda Borelli, Divine Icon of Style
Borelli was born in La Spezia on 22nd March 1887 from Napoleone Borelli
and Cesira Banti. Both her parents were theatre actors and it was only
natural for Lyda to follow her parents’ steps.
She debuted in a theatre play in 1902: at the time Lyda looked like an
ethereal Pre-Raphaelite women and, in later years, she incarnated
Gabriele D’Annunzio’s ideal of feminine beauty.
At 18 she already played in main roles and soon became one of
D’Annunzio’s favourite actresses. She starred in 1904 in D’Annunzio’s La
Figlia di Jorio (The Daughter of Jorio) and the decadent poet and
writer dedicated her Il ferro and Più che l’amore.
In 1908 Borelli had already turned into an icon of style: many elegant
women started imitating the way she dressed, moved and even suffered on
stage. In 1913 she starred together with Mario Bonnard in her first
film, Ma l’amor mio non muore (Everlasting Love) by Mario Caserini, one
of the most famous Italian directors of silent films. The movie was very
successful and consolidated her fame.
Between 1914 and 1918 she shot 14 films and 2 documentaries; at the
climax of her career she married count Vittorio Cini di Monselice, a
powerful man and entrepreneur, and retired, devoting her life to her
family (she had four children, Giorgio, Mynna, Yana and Ylda) living
between Venice and Rome, where she died in 1959.
Borelli combined the decadence of D’Annunzio’s heroines, French elegance
and Italian beauty and her acting was mainly based on excessive
gestures, painful expressions and languid gazes.
She was essentially a dark femme fatale representing desire and
sensuality. She often interpreted characters defeated by diabolical
destinies who ended up killing themselves (often with poison - she died
in 8 out of 14 films…).
Some critics stated she had very limited acting skills and her talent
stood in a very special power she had of turning through her gestures
and movements unachievable, unattainable desires, dreams and illusions
into a sort of tangible reality. Antonio Gramsci, who in 1917 worked as a
theatre reviewer, criticised her stating she represented a heightened
form of sensuality, “a part of a primordial and prehistoric humanity”
that had managed to cast a spell on the audience.
From a fashion and style point of view Borelli was very important for
two main reasons: she had a favourite fashion designer, artist Mariano
Fortuny (admired also by Eleonora Duse) and deemed his creations as
vital in her films, and she started a peculiar phenomenon defined by the
term “borellismo” and the verb “borelleggiare”, that, included even in
encyclopaedias and dictionaries of the Italian language, mainly referred
to women, meant to pose, dress and move like Lyda Borelli.
Novelist Lucio D'Ambra wrote about her in 1937: “The new goddess
eclipsed with her aesthetic prestige all the others; young Italian women
literally moulded themselves on this sinuous statue that, struck by
love pangs, harmoniously twisted and turned like a sensual music. Women
at the time loved her grand gestures on stage and on the big screen and
tried to imitate as much as they could those plastic yet sensual
movements. What later on happened with Greta Garbo, had happened in
Italy with Lyda Borelli a few years earlier. It was easy to meet in the
literary salons and cafes, at the theatre and in the streets many little
Borellis who starved themselves ending up looking like sinuously
serpentine shadows, thin, wrapped up and draped in the shortest fabric
swatches they could find among the stocks of the silk shops.”
The "borellismo" trend only lasted a few years, disappearing soon after
the actress retired. Today’s vapid celebrities and supposed instant
icons of fashion and style dictating us how to dress and what to look
like, should maybe ponder a bit about Borelli's life."
From: www.irenebrination.typepad.com/irenebrination_notes_on_a/2010/11/lyda-borelli-divine-icon-of-style.html
"Borelli, Lyda.
Attrice cinematografica e teatrale, nata a La Spezia il 22 marzo 1884 e
morta a Roma il 2 giugno 1959. Una delle prime dive del cinema muto,
rappresentò sullo schermo l'ideale della femminilità liberty e
dannunziana, enfatizzata da una gestualità lirica che divenne subito
emblematica di uno stile recitativo.
Figlia d'arte e sorella di Alda (Cava dei Tirreni 1879-Milano 1964),
attrice teatrale anch'essa e interprete di alcuni film nel 1916 per la
Tiber, la B. debuttò in teatro nel 1901 nella compagnia diretta da F.
Pasta, riscuotendo un buon successo in La fortuna di A. Capus. Passò nel
1904 nella compagnia di V. Talli, la migliore dell'epoca, e recitò
accanto a Irma Gramatica, Ruggero Ruggeri e Oreste Calabresi nella prima
rappresentazione di La figlia di Iorio di G. D'Annunzio. Divenuta prima
attrice giovane, recitò come protagonista insieme con Eleonora Duse in
una rappresentazione straordinaria di Fernanda di V. Sardou. Il suo
repertorio si estese quindi alle commedie brillanti: con la compagnia
Fert diretta da E. Novelli fu la Salomè di O. Wilde in
un'interpretazione di rilievo per l'atmosfera estetizzante che riuscì a
creare intorno alla figura della protagonista. Nel 1913 esordì nel
cinema con Ma l'amor mio non muore!, adattamento di un feuilleton
diretto da Mario Caserini. Come Elsa Holbein, la spia che fa innamorare
di sé il delfino di un immaginario principato dell'Europa centrale, B.
interpretò il suo primo ruolo cinematografico di femme fatale. Il corpo
esile ma voluttuoso fasciato in morbidi drappeggi, l'incedere languido, i
gesti lenti e ben studiati, ritmati su un tempo per la prima volta
squisitamente cinematografico, costruirono subito lo stereotipo della
diva, eterea e raffinata, che sarà ripetuto quasi identico in tutti i
film che seguiranno. Ancora nel 1913 girò La memoria dell'altro di
Alberto Degli Abbati con Mario Bonnard; nel 1914 La donna nuda,
adattamento di un celebre lavoro di H. Bataille firmato da Carmine
Gallone, in cui impose e perfezionò i movimenti 'serpentini', l'uso
enfatico del corpo e dello sguardo in una recitazione volutamente
artificiosa, lontana da intenti realistici. Un gioco scenico iterato nei
fremiti e nei languori della nobildonna che nelle vicende faustiane di
Rapsodia satanica (1917) di Nino Oxilia, cede all'amore, tradendo così
il patto col diavolo e votandosi alla morte. Interpretò altri film
tratti da opere teatrali di Bataille, sempre per la regia di Gallone,
Marcia nuziale (1915) e La falena (1916). Fu successivamente
l'esuberante e intrepida Madame Tallien (1916), l'allucinata Marina in
Malombra (1917), trasposizione di Gallone da A. Fogazzaro, in entrambi
accanto ad Amleto Novelli. Furono gli ultimi grandi successi della B.,
che da allora lavorò in opere rivolte a soddisfare il pubblico con
vicende tenebrose dominate da atteggiamenti fatali, modello di quella
femminilità esangue ed estatica copiata poi in tutti i salotti
dell'epoca. L'imitazione della diva divenne un fatto di costume, al
punto che nuovi termini furono coniati per definirlo: 'borelline' erano
le fanciulle smagrite che ondeggiavano nelle strade, 'borellismo'
l'ossessione emulativa del pubblico femminile; 'borelleggiare' entrò nei
dizionari coevi, per significare "lo sdilinquire delle femminette,
prendendo a modello le pose estetiche e leziose dell'attrice Lyda
Borelli" (A. Panzini, Dizionario moderno, 1923⁴, p. 74). Il film che
concluse la carriera della B. fu La leggenda di Santa Barbara (1918),
opera di propaganda commissionata dal Ministero delle armi e munizioni.
Nello stesso anno sposò l'industriale conte Vittorio Cini di Ferrara, e
abbandonò teatro e cinema."
Margherita Pelaja
www.treccani.it/enciclopedia/lyda-borelli_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
+Thomas Florio In fact, it is not an exaggeration to state that she was in the vanguard of those who created film acting and a template for “movie stardom.” Borelli entered the frame and invoked the viewer’s gaze; with a single gesture she sparked the collective desire: an immediate diva.
Alberto De Bassini (1)
Il primo interesse che si trae dallo studio della vicenda artistica e
umana di Alberto De Bassini è la data di nascita: 1847. Il secondo
interesse invece si può ricondurre alla sua discografia: credo difatti
che Alberto De Bassini sia l'unico cantante ad esser nato prima del 1850
vantando oltre 150 incisioni, le prime delle quali risalgono
addirittura al 1897 (Berliner) e 1898/99 (i mitici cilindri del
colonnello Bettini): tutte incisioni queste con suono estremamente
precario, talune inudibili, altre più accettabili, altre con discreto
suono, come gli
Zonophone o alcuni Columbia americani in cui il
cantante annuncia con la propria voce il titolo dell'incisione. Chiudo
per un istante il capitolo sulla discografia per tornarci in seguito.
Adesso mi piacerebbe approfondire la figura dell'uomo, la sua biografia,
molto difficile da ricostruire però data l'estrema scarsità di
informazioni che si hanno. In rete su di lui non c'è che quasi niente.
Nei dizionari specializzati neppure, tranne una scarna voce
nell'Enciclopedia dello Spettacolo curata da Rodolfo Celletti. Eppure è
stato l'unico figlio di Rita Gabussi e Achille De Bassini, cantanti di
fama internazionale e protagonisti di alcune prime rossiniane e verdiane
di importanza storica. La madre, nata tra il 1810 e il 1815,
probabilmente ha avuto voce e timbro da mezzosoprano ma ha alternato con
grande frequenza ruoli da soprano a ruoli da mezzosoprano, il che poi
non sarebbe qualche cosa di nuovo in un tipo di cantante attiva tra il
1835 e il 1850. Eccelleva anche nel genere brillante: esordì a Bologna
nel 1835 come Fiorilla nel Turco in Italia e poco dopo inserì
Cenerentola e Rosina. Intorno ai primi anni '40 conobbe Achille Bassi
(detto De Bassini) e Gaetano Donizetti, il quale le riscontrò grandi
doti ma pure l'ostinazione a cantare "alto", e cioè a sostenere con
caparbietà ruoli troppo acuti per lei. Nel 1844, alla Scala si cimentò
nell'Ernani con cui conseguì un successo strepitoso, sia di critica che
di pubblico. Ma ciò le pregiudicò in breve la voce e, conseguentemente,
anche la brillantissima carriera: all'ortodossia d'emissione preferì
anteporre la calda veemenza drammatica del primo Verdi. Ritiratasi
intorno alla metà degli anni '50 si dedicò all'insegnamento. Il marito
Achille è poi stato tra i più importanti baritoni della prima metà
d'800: scelto da Verdi per la prima esecuzione di Foscari, Corsaro e
Luisa Miller, nel 1862 fu anche il primo Melitone nella prima della
Forza. Verdi ravvisò in lui un'indole brillante, ma certo il suo terreno
d'elezione rimase il repertorio da baritono nobile e patetico. Divenuto
celeberrimo in poco tempo anche grazie alla voce di grande estensione e
risonanza, è stato accostato dai critici dell'epoca sia ad Antonio
Tamburini (che sostituì quando ormai era declinante all'Opera Italiana
di Pietroburgo nel 1862) che, soprattutto, a Giorgio Ronconi, arrivando a
conquistarsi la nomina affibbiatagli dai pubblici del nord-Italia come
"secondo Ronconi".
Alberto De Bassini (2)
Tornando invece alla carriera di Alberto De Bassini,
figlio di cotanta ascendenza, si sa molto poco. Nato a Firenze ove la
madre si trovava a cantare nel 1847, nel 1869 debuttava al Camploy di
Venezia nel Belisario, forse in un ruolo secondario, accanto al padre
Achille cinquantenne e vocalmente ancora integro. La voce non era
eccezionale né per timbro né per consistenza, ma neppure mediocre. Al
Camploy di Venezia nel 1869 cantò anche nei Lombardi come tenore, credo
protagonista. S'avviò dunque ad una carriera di secondario livello tra
Italia e Spagna e nel 1879 fu protagonista nell'Ernani a Pietroburgo. Al
Paganini di Genova si presentò in Mignon e Carmen, fu al Rossini di
Venezia nel 1882, all'Argentina di Roma e al Carcano a Milano, al Verdi
di Padova nel 1883, all'Opera di Bucarest, al Regio di Torino
(Mefistofele di Boito) e al Pagliano di Firenze (Gioconda) nel 1884, al
San Carlos di Lisbona nel 1885, all'Alighieri di Ravenna nel 1887, al
Politeama di Palermo e al Carignano di Torino nel 1888. Superata la
quarantina cantava ancora l'Almaviva del Barbiere, ma riscosse notevoli
successi anche come don José nella Carmen. Erano anni quelli in cui il
repertorio dei cantanti, il gusto e le esigenze del pubblico mutavano
repentinamente, lasciando molto spazio all'opera naturalista francese:
non occorreva più solamente cantare bene, bisognava "agire", recitare",
accentare con mago incisività, "vivere" il personaggio, abbandonare gli
antiquati moduli stilistici romantici in virtù d'una nuova visione del
teatro d'opera, più vicina e immediata ai generali mutamenti dell'epoca.
Nel 1889 a Reggio Emilia si presentò con Mignon e Dinorah, ma apparve
in lieve declino e dal 1890 decise di cambiare corda e divenendo
baritono: con tale veste si presentò ai Filodrammatici di Milano come
Figaro nel Barbiere e Laerte nella Mignon ma, sembra, con esito
infelice. Ciò l'indusse ad emigrare negli Stati Uniti intorno al 1892 e a
continuare ivi la carriera come baritono in compagnie secondarie. Le
sue notizie in suo riguardo quì terminano. Sennonché iniziò ad incidere
qualche anno più tardi, nel 1897, i primissimi dischi piatti Berliner e i
cilindri Bettini (circa un centinaio!), ovviamente tutti come baritono.
Alcuni critici, quando De Bassini si esibiva in Italia come tenore,
riscontrarono pesanti discontinuità di rendimento: certe sere la sua
voce si manifestava pesante e indurita, altre pieghevole e duttile. Ma
anche l'uomo era discontinuo: carattere imprevedibile e bizzarro,
soggetto al timore da palcoscenico, in talune circostanze scoppiava in
forti attacchi d'ira. Raggiunse una buona fama come José, senza certo
arrivare alla celebrità di Fernando Valero, il più celebre José del
tempo, ma più d'un critico riscontrò dei limiti nel registro acuto.
Strano: dalle sue registrazioni emergono per contro dei dei Sol acuti
sorprendenti in quanto a pienezza e squillo. Ma emerge anche una serie
di pregi e difetti - non pochi invero - tipici dei cantanti nati intorno
alla metà d'800 e di matrice puramente romantica. Come s'è detto prima,
i cilindri Bettini e i Berliner essendo tutte incisioni di suono assai
precario, occorrerebbe concentrare l'ascolto sugli Zonophone e sui
Columbia americani, tutti incisi tra il 1902 e il 1905, quando De
Bassini aveva quasi sessant'anni. La voce è contraddistinta da un timbro
chiaro, vibrante ma molto delicato e, al centro un poco caprino,
mutando quasi colore e divenendo possente negli acuti. Così, in arie
dalla tessitura centralizzante (tipo nella romanza "non è ver"
attribuita erroneamente al Mattei) s'ascolta un baritono dalla voce
normale che nel finale emette un Sol acuto enorme, tanto da cagionare
addirittura una tal quale sproporzione nelle sonorità tra centro e acuti
i quali hanno, più che volume, vibrazione e squillo. È la classica
emissione di matrice romantica, con medium leggero e acuti pienamente
"in avanti" e appoggiati nelle cavità di risonanza superiori della
testa. Talune critiche lo segnalarono già in declino appena dopo i
quarant'anni, come tenore. L'ascolto dei suoi dischi dà l'impressione di
tutto fuorché d'una voce declinante. Sicuramente il mutamento di corda
vocale, da tenore a baritono, gli ha giovato parecchio. Anche il gusto
che lo sorregge ha molto del cantante da epoca 1840: i tempi,
contrariamente a molti altri cantanti di questo tipo della medesima
epoca, sono ben sostenuti senza indugiare nella lentezza, ma i malvezzi
neppure si contano: riprese di fiato continue, arbitrarie e fuori stile,
tendenza ora a frapporsi al testo del libretto ora al testo musicale,
cadenze in stile barocco poco consone e in taluni casi di cattivo gusto,
scarsa o totale assenza di incisività nel fraseggio del repertorio
drammatico. Anzi, in ciò De Bassini è stato un cantante totalmente
calato nel 1850, ovvero nell'epoca in cui la veemenza e l'espressività
nel fraseggio si traevano esclusivamente dalle mere risorse vocali.
Oltre alla pienezza degli acuti, però, fattore questo puramente estetico
per inciso, c'è un quid in queste sue incisioni della preistoria del
disco che viene fuori un po' velatamente, in tono sommesso, ma che
sorprende più d'ogni altra cosa: la precisione nella vocalizzazione. E
emerge proprio in alcune cadenze di gusto arbitrario. La levità con cui
vocalizza fino al Sol bemolle acuto nella cadenza de "alla vita che
t'arride" in parte riporta il pensiero alla leggerezza di Mattia
Battistini, in parte catapulta l'ascoltatore ai moduli stilistici in
voga nei baritoni della prima metà d'800. Il padre di Alberto De Bassini
è nato nel 1819, è stato tra i più eminenti baritoni verdiani tra il
1842 e il 1852, credo possa essere più che legittimo individuare in
questo tratto storico quel filo conduttore che unisce lo stile e la
vocalità di Alberto De Bassini al padre. La stessa sensazione si prova
all'ascolto dell'aria della Sonnambula, scritta per basso, almeno fino
ai primissimi del '900 eseguita anche dai baritoni (come del resto
accade col "vieni, la mia vendetta" della Lucrezia Borgia). La cadenza
ha la precisione nella vocalizzazione di cui s'è detto. Lo stile di
Alberto De Bassini è, per tutte queste ragioni, raro e personale. Non è
nemmeno consueto trovare un baritono quasi sessantenne con voce così
integra e compatta. Altra analogia con Mattia Battistini. Un'altra
registrazione di indubbio fascino è il "non è ver", romanza da camera di
fine '800, la quale contiene nel finale un Sol di sorprendente
splendore di vibrazione. Lo stile e l'emissione di De Bassini, com'è
evidente, stridono fortemente con l'accentazione e la brada foga dei
cantanti prodotti dal verismo di primo '900. Trasferitosi negli Stati
Uniti nei primi anni '90 d'800, Alberto De Bassini morì in data e luogo
ignoti. Non saprei indicare se tristemente, se sopraffatto da debiti, se
in vicissitudini economiche o altre peripezie del genere. Ma forse
anche per questo la sua vicenda artistica e umana è affascinante.
19:40 Guai se ti sfugge un moto... Italian tenor DANTE DEL PAPA was one of the musical artists who made the acquaintance of socialite and recording pioneer Lieutenant Gianni Bettini (1860-1938). Bettini made hundreds of cylinder recordings of famous (and not so famous) singers in New York and Paris during the 1890s and early 1900s. Del Papa was frequently invited to Bettini’s Central Park South salon to make recordings, both as a solo artist and in ensembles. Although del Papa recorded scores of cylinders for Bettini (nineteen solo arias are listed in Bettini’s May, 1897 catalogue alone), only about a dozen of the tenor’s recordings are known to survive today. In this recording, del Papa is joined by soprano Rosalia Chalia (1863-1948) and baritone Alberto de Bassini (1847-1918) for the trio "Guai se ti sfugge un moto" from Donizetti's Lucrezia Borgia. This rare cylinder was made in New York at Bettini's studio in 1898.
Dante del Papa (1854-1924) was born in Pisa and studied at the Milan Conservatory. Following a few local concerts in his hometown, the young tenor made his debut as the Duke in Rigoletto at the Teatro Mariani in Ravenna in 1879. During the course of the next fifteen years del Papa appeared in Rome, Florence, Milan, Bologna, Ferrara, Livorno, Turin, Barcelona, Amsterdam, Zagreb and Alexandria in such operas as Il Barbiere di Siviglia, Lucia di Lammermoor, Un Ballo in Maschera, I Due Foscari, La Traviata, Mignon, I Pescatori di Perle, Carmen, Faust, Pagliacci and Cavalleria Rusticana. He immigrated to the United States in 1894 and settled in New York where he sang for the New York Grand Opera Company. Del Papa was also a fixture on the opera stages of Philadelphia and Boston. Despite reports that he had been a “star” at the Metropolitan Opera, del Papa made a single appearance with the company, Turiddu in Cavalleria Rusticana, while the MET was on tour in Boston on April 12, 1895. In his early forties, del Papa began to curtail his operatic performances, concentrating more and more on concerts and recitals. The tenor founded a school of singing, The Verdi Grand Opera School, around 1900 and became one of New York’s most successful voice teachers. Although he retired from professional singing in 1903, del Papa was coaxed back to the stage for a few charity concerts in 1915 and 1916. At the time, the tenor was still in fine voice, despite his advancing age. Dante del Papa continued to teach from his New York studio until his death in 1924 at the age of seventy.
Il cilindro è il padre del disco piatto, fu in voga dal 1890 ca al 1908, epoca intorno alla quale soccombette definitivamente al disco piatto tradizionale. Gianni Bettini è stato un colonnello italiano con la passione della registrazione e, tra il 1897 e il 1903, realizziò tra Roma e New York alcune registrazioni, non solo di canto lirico. Ad esempio, nel 1903 registrò la voce del papa Leone 13º il quale, essendo nato nel 1810, risulta essere la voce più antica mai capitata dal fonografo.
Franceso Marconi (1)
9:14 Di pescatore ignobile
32:56 Madre, se ognor lontano
Già per Giovan Battista Rubini, intorno la metà degli anni '20 d'800,
s'iniziò a parlare di "lacrima" nella voce, languida espressione
adoperata per indicare l'espressività, il sentimento dell'artista
profuso nella parola cantata, come quasi lacrimasse realmente. C'è da
dire anche che con Rubini iniziò un'epoca che poi rivoluzionò parte
della storia dell'opera avendo egli creato il "mito del tenore
romantico", ossia la figura del teatro lirico d'800 più affascinante e
vagheggiata per tutto l'intero secolo fin tanto che, poi, la rivoluzione
"verista" ne sovvertì le sorti. Il mito riconobbe miracolosamente i
fasti d'un tempo intorno al 1923/24 allorché un tenore romano di nome
Lauri-Volpi, con voce infiammata e spirito romantico, ne fece rivivere i
bagliori per almeno un decennio. Tornando a Rubini, come si diceva in
principio, si sa che di suoi epigoni se ne ebbe a iosa. I musicisti in
generale ma specialmente i cantanti, più che dai trattati di canto o da
applicazioni tecniche metodiche, imparano tramite imitazione. Sarebbe
bene però quì porre un distinguo sostanziale tra i tenori d'800 e tenori
del '900. I più eminenti tenori della seconda metà d'800, sebbene nel
metodo di canto si rifacessero ai caposcuola Rubini, Donzelli, Nozzari
e, successivamente, ai tenori angelici e di forza della metà del secolo i
quali, a loro volta avevano mutuato gli stili vocali dei grandi
inziatori, i grandi tenori di metà d'800, dicevo, ebbero stili e voci
personalissime. Per contro, invece, la quasi totalità dei tenori del
'900 fece propri i modelli vocali di Enrico Caruso in primis, poi di
Beniamino Gigli e in parte Tito Schipa ma, nessuno di loro, in
particolare dal 1940 in poi, riuscì accostarsi alla loro eccezionale
statura artistica. Tornando ancora ai tenori d'800 e all'imitazione, non
ricordo d'essere mai imbattuto in critiche del tipo "imitava
pedissequamente questo o quest'altro", e così via. Una vicenda singolare
fu proprio quella di Fernando De Lucia il quale, tra il 1878 e il 1884,
al San Carlo di Napoli, era riuscito a udire Angelo Masini, Roberto
Stagno e Julián Gayarre. Egli debuttò nel Faust nel 1885 proprio in quel
teatro e, chi lo conobbe e l'udì dal vivo instaurò paralleli con quei
semidei sopracitati non solo per lo stile, ma pure per le somiglianze di
voce. Eppure, De Lucia riuscì a creare una individualità personalissima, unica.
Francesco Marconi debuttò in Italia, probabilmente al Pagliano di Firenze, nel 1876, a soli ventuno anni.
Dico probabilmente perché le date del suo debutto non sono certissime.
Due anni dopo, al Real di Madrid, teatro del divo Gayarre, ebbe un
trionfo nel Faust. Ma c'è una circostanza non secondaria da tenere in
considerazione: chi udì Marconi al Pagliano nel Mefistofele e chi l'udì
poi a Madrid lo accostò a Julián Gayarre e, in particolare, notò un filo
conduttore tra la voce di Marconi e quella proverbiale "lacrima" nella
voce che fece del navarrese il tenore più idolatrato della seconda metà
d'800. Gayarre, intorno la seconda metà degli anni '70, era apparso in
Italia e alla Scala, nella Favorita, suscitò reazioni che probabilmente
non ebbero eguali fino all'avvento di Enrico Caruso. Filippo Filippi,
rigido e temuto critico della Perseveranza, in quell'occasione parlò
"non del debutto d'un tenore, ma d'un genio del canto". La sua
popolarità crebbe a tale livello da imporsi come archetipo tenorile
assoluto e idiscutibile, tutti i tenori dell'epoca medesima e della
seguente impararono a imitarlo, chi più, chi meno, inevitabilmente.
Credo che Marconi ebbe modo d'udire Gayarre a Roma. Fu proprio Gino
Monaldi, nato a Perugia nel 1847, conoscitore dei più grandi cantanti
d'800, ad aver udito Francesco Marconi al Pagliano nel 1876: l'impatto
emotivo che ricavò dall'ascolto della voce dello sconosciuto tenore fu
enorme e tale da indurlo non solamente ad instaurare un parallelo con
Gayarre, in cui faceva figurare lo spagnolo in alcuni ambiti addirittura
perdente rispetto al trasteverino, ma pure da portare il Monaldi,
dicevo, a mettere per iscritto una delle più celebri critiche della
storia della vocalità rivolta ad un singolo esecutore: "non dimenticherò
mai la sensazione dolcissima da me provata nell'udire la romanza “dai
campi dai prati„ cantata dal Marconi. Mi pareva di sognare! Eh! Sì che
ne avevo sentito delle voci e dei cantanti! Eppure quella voce ero certo
di non averla ancóra mai udita. La soavità del timbro, la purezza del
metallo, la fermezza e la giustezza meravigliosa del suono, l'abbondanza
e la resistenza fenomenale dei fiati, tanto che le note, piuttosto che
da una laringe umana, sembravano date dall'arco d'un violoncello, tutto
questo costituiva un insieme così bello e incantevole di cui non
riuscivo a rendermi ragione. Ma è mai possibile - dissi ai miei amici -
che un simile tenore canti quì, al Pagliano e che noi, venendo quì
stasera, non ne conoscessimo nemmeno il nome?". Interessante e
sorprendente il riferimento alla cavata del violoncello, usato dalla
critica in seguito per indicare il velluto e la lacrima nel canto di
Enrico Caruso. Quella critica uscì la prima volta nel 1906, con la 1ª
edizione del "Cantanti Celebri". Da lì in poi, chiunque avesse voluto
trattare sul tema "Francesco Marconi", ineluttabilmente si sarebbe
rifatto a quello scritto del Monaldi. Prosegue ancora il Monaldi con un
interessante raffronto: "la voce di Gayarre non possedeva l'aureo timbro
di quella del Marconi. L'attacco delle note acute era meno spontaneo e
impetuoso; in compenso però la voce del Gayarre - per la natura del suo
colore - appariva più maschia e sonora e il velo che l'adombrava le
aggiungeva talvolta una dolcezza incredibile. Ho udito il Gayarre è il
Marconi in quasi tutte le opere del loro repertorio - quello del Marconi
però più esteso - e posso dire che in alcune di esse, come la Borgia,
gli Ugonotti e l'Africana, la somma del loro merito e il risultato di
esso sulla scena mi è apparso così vicino da non saper decidere invero
quale dei due superasse l'altro, anche d'un solo punto. Egli è che il
Marconi ebbe il dono d'un istinto meraviglioso che lo spinse e lo fece
cantare così, quasi inconsciamente, come cantano gli uccelli. Ma la cosa
più mirabile è questa, che egli, nella sua natura vergine, sentì la
nota del dolore come un vero grande poeta, e la sua voce ce ne fece
sentire lo schianto fino alle lagrime".
Tra fine '800 e inizio '900 il I tenore con la "lacrima" nella voce s'identificò con Enrico Caruso.
A suffragio di tale nomina, il profluvio di incisioni lasciato dal
napoletano costituisce eccezionale valore empirico. Gli imitatori che
scaturirono dal fenomeno Caruso furono innumerevoli e la leggendaria
"lacrima" fu imitata in principio anche da tenori eccezionalmente
dotati, tipo il giovane Beniamino Gigli, i quali poi, assodate certo le
eccezionalità vocali, di tutto avrebbero avuto bisogno fuorché d'imitare
quella "lacrima". Tra Gayarre e Caruso vi fu altra generazione di
tenori, fulgida invero di grandi tenori, almeno tre dei quali con la
"lacrima": Fernando Valero (nato nel 1855), Alfonso Garulli (1856) e
Francesco Marconi, tenori celebri tutti, legati nelle vicende umane e
artistiche per varie ragioni. Ciò che lega Valero a Marconi anzitutto è
un altro tenore: Enrico Tamberlick. Entrambi, difatti, beneficiarono dei
suoi consigli e delle sue lezioni. Per Valero, Tamberlick rappresentò
addirittura un mentore, un punto di riferimento cui si rifaceva nei
primi anni di carriera. Oltre ciò, anche Valero fu sovente accostato al
nome di Gayarre per la lacrima nella voce e per la calda espressività.
Requisiti che la critica, come s'è visto col Monaldi, individuò anche
nelle prestazioni di Marconi. Alfonso Garulli, bolognese, fu un altro
tenore per cui l'identificazione con la "lacrima" e i "sentimenti" fu
frequentissima. Addirittura per lui si vergò la definizione di "tenore
del sentimento". Aveva la gola fragile però, e negli ultimi anni di
carriera incorreva nelle stecche facilmente, come accadde poi a Marconi
dalla metà degli anni '90. Fortunatamente Garulli lasciò una decina
d'incisioni circa e la morbidezza, l'espressività e la facilità negli
acuti portano il pensiero dell'ascoltatore alla morbidezza sfoggiata
nelle prime incisioni da Marconi. Entrambi rappresentarono, comunque, un
completamento al filone dei tenori angelici di metà '800. Il loro
repertorio era vasto, partiva dal Barbiere per giungere all'Aida, e nel
caso di Marconi addirittura all'Otello. Timbricamente la voce iniziava a
prendere maggiore peso nonostante la chiarezza, e l'estensione fino al
Do acuto consentiva d'incarnare sia la figura del tenore angelico tipo
Rubini, sia la figura del tenore romantico cappa e spada in grado di
cimentarsi in un repertorio come Puritani e Huguenots, il quale si fonda
essenzialmente nella sensibilità dello stile patetico e nella
prorompente energia dell'involo all'acuto.
Marconi (2)
Nonostante la celebrità raggiunta, a Francesco Marconi non è mai stata
dedicata una seria biografia degna di questo nome. In un necrologio
apparso nel febbraio del 1916 nella Nuova Antologia, rivista di arti e
cultura, pochi giorni dopo la morte del tenore, tale Giorgio Barini
amico intimo di Francesco Marconi ne tratteggiò le più importanti tappe
della sua vita, corredando il racconto con numerosi aneddoti poi
riportati di pari passo nei ritratti curati da Arturo Lancellotti e
Ulderigo Tegani apparsi molti anni dopo. L'aneddotica e il racconto
tramandato è la rappresentazione classica della biografia d'un cantante
del passato. La biografia critica d'un cantante, come genere letterario,
è fatto più vicino alla nostra epoca. Nel 1947 Eugenio Gara, il decano
della critica novecentesca, aveva reso mirabile esempio alla storia del
teatro lirico con la stupenda biografia su Enrico Caruso sulla quale
scia, poi, s'incardinarono altri lavori biografici. Ma almeno fino gli
inizi degli anni '70 dello scorso secolo, il genere del racconto
biografico sui cantanti lirici del passato fu intrapreso da chi quei
cantanti l'aveva conosciuti e uditi personalmente, accantonando in molti
casi qualsiasi velleità d'approfondimento meticoloso. Tornando ora a
Francesco Marconi e al necrologio sopracitato del Barini, penso che
tutto ciò che vi si riporta possa essere indicato come fonte attendibile
per questi motivi: fu scritto nello stesso mese in cui l'artista morì
(dunque con il racconto cronologicamente più o meno vicino alle vicende
raccontante) e a comporlo fu un suo stretto amico, che conosceva anche
la sua vita privata. Anzitutto occorre partire dalla data di nascita,
sovente collocata indicativamente tra il 1853 e il 1855. Marconi, nacque
il 14 maggio 1855 da una famiglia umile: suo padre gestiva un negozio
di ferramenta. Lo sconvolgimento di cui fu protagonista in quegli anni
lo Stato Pontificio mandò in crisi parte dell'economia della città e
Francesco Marconi, spinto dai problemi economici della famiglia, sin
dalla più tenera età fu costretto a impiegarsi in una falegnameria come
adddetto alla costruzione di bare. Ma di questo ne andò fiero per tutta
la vita. Pare che una volta divenuto celebre, irritato dall'attesa
dell'arrivo del soprano Fanny Torresella per una prova, avesse iniziato a
commentare con i colleghi irriverentemente sul soprano. Questi,
giungendo proprio nel momento della battuta del Marconi, così a lui si
rivolse: "si vede bene che siete stato un falegname!", "sempre pronto a
farvi la cassa", le rispose Marconi dileggiandola! Oppure, poco prima di
morire, passeggiando per Roma insieme con un amico, fermandosi innanzi
un portone, così disse: "vedi questo portone alto quattro metri? L'ho
fatto io, come le mie mani!". L'incontro con il canto fu fortuito. Nelle
sere d'estate cantava nelle borgate di Trastevere e proprio per strada
s'imbattè un giorno con il baritono romano Ottavio Bartolini,
specialista a metà '800 del repertorio verdiano, nato nel 1821 il quale,
ormai ritirato dalla carriera, prese a cuore l'insegnamento del canto.
Sembra che fino a poco prima di morire, nel 1894, avesse mantenuto la
voce ferma e potente come Antonio Cotogni. Aveva sposato la sorella del
leggendario Tamberlick, Amalia, e dalla sua scuola uscirono, oltre a
Francesco Marconi, anche il tenore stentoreo Francesco Signorini, il
basso Paolo Wulman e, inizialmente, financo Giuseppe De Luca che passò
poi nella scuola del celebre Persichini. La rinomatissima e gloriosa
scuola romana di fine '800 fondava i suoi cardini sulla morbidezza
d'emissione e la chiarezza della dizione. Educare la voce del Marconi
non dev'essere stata impresa scabrosa: a parte l'eccezionalità del
timbro aureo, sin da giovanissimo egli dimostrò d'essere governato da un
istinto musicale superiore e la voce toccava facilmente al Do di petto,
ma occorre anche precisare che più d'una critica in suo riguardo,
almeno fino ai primissimi degli anni '80, ebbe modo di sottolineare il
non grande volume. Artista umile, certo, ma eccezionalmente dotato
vocalmente, seppe gestire il patrimonio vocale con l'oculatezza
insegnata da Bartolini. Marconi, dopo un non lungo periodo di studi, era
già pronto per debuttare in un luogo dell'importanza del Teatro Real a
Madrid, nel Faust, anno 1878. Aveva solo ventitré anni, ma il successo
che riportò gli schiuse nell'immediato le porte della carriera
internazionale. La voce, oltre ad essere caratterizzata dal timbro
personalissimo e prezioso, veramente aureo, era omogenea in tutti i
registri, fatta d'un unico metallo, dal Si bemolle basso al Do acuto.
Nel gennaio del 1880 si presentò alla Scala nel Rigoletto apparendo come
il migliore del cast, e il critico del "Pungolo" lo paragonò al celebre
Antonio Giuglini (o Giulini), epigono di Rubini e tra i più eminenti
tenori di grazia di metà '800: "[Marconi] è un tenore alla Giulini, ha
una voce sottile ma calda, appassionata, vibrata, ha degli acuti
bellissimi, limpidi nitidi e sicuri, fraseggia con sentimento ed
effetto. A questi lumi di luna tenorile, Marconi è una vera
«trouvaille». Egli cantò bene anche se in preda ad una viva emozione che
non riusciva inizialmente a padroneggiare. Ebbe calorosi applausi,
disse molto bene il duetto con Gilda e trionfò nella canzone del quarto
atto". Così, quanto riportato dal "Pungolo". Era l'epoca in cui il
Rigoletto poteva reputarsi come il cimento d'antonomasia per un tenore
"di cartello". Era inoltre in voga la consuetudine di bissare, trissare
sia la ballata iniziale e la canzone dell'ultimo atto, tanto che divenne
celebre ciò che disse Gayarre, "ogni volta che canto quell'opera debbo
farlo due o tre volte per sera", e a ogni esecuzione del "questa o
quella" e della "donna è mobile" il pubblico esigeva sempre varianti
differenti l'una dall'altra. Già Angelo Masini, tenore stimato da
Giuseppe Verdi, aveva inventato sette cadenze per la "donna è mobile", e
Marconi non fu da meno. Pare però che Verdi, dell'invalsa tradizione,
non fosse contento affatto. A Montecatini, ove il Maestro passava
l'estate tra i bagni termali, un giorno incontrò proprio Francesco
Marconi, il quale si vantava di eseguire "la donna è mobile" in sei
maniere diverse, al che Verdi irritato replicò: "fuorché come l'ho
scritta io!". Il mese successivo, febbraio 1880, sempre in Scala,
Marconi si produsse nella Gioconda accanto alla celebre Mariani Masi e
Gustavo Moriami, ma dando luogo a riserve, non essendo la sua voce in
condizioni ottimali: "il signor Marconi, artista tanto simpatico al
nostro pubblico che tanto l'applaudì nel Rigoletto, non trovavasi in
detta sera nella condizioni migliori", stando all'"Affondatore". Al
Concordia di Cremona, nel settembre del medesimo anno, in Gioconda la
sua voce suscitò sensazione: "ha una voce insinuante e vellutata che con
la musica del «cielo e mar» suscita una tempesta di reminiscenze e
affetti. È giovane, è bello e canta con molta passione". Ma il critico
de "La Bandiera dell'Operaio" così si espresse riguardo l'intensità
della voce: "sulle prime si credeva che il signor Marconi mancasse di
voce, ma nel duetto con Barnaba dimostrò quali fossero i suoi meriti
artistici. Sebbene la sua voce sia ad un timbro che rasenta l'esilità,
pure la grazia con cui eseguisce specialmente la romanza del secondo
atto, dimostra in lui un tenore della tempra del Bolis". Il 26 dicembre
1880, all'Apollo di Roma, l'impegnativo cimento con l'Aida accanto a
Marie Louise Dourand fece sembrare superati i limiti dell'intensità
della voce precedentemente rimarcati da altre critiche: "il Marconi ha
una voce stupenda che fece meravigliare tutti coloro che ancora non
l'avevano sentito. È una voce robusta, sempre chiara e di una freschezza
inalterabile. Il pubblico gli diede un diluvio di applausi specialmente
nel "celeste Aida", di cui si richiese il bis, dopo che il Marconi ebbe
emesso un bellissimo Si naturale [in realtà Si bemolle]". Probabilmente
la voce aveva subito una prima evoluzione, da tenore di grazia puro a
tenore drammatico. Non è fatica crederlo, grazie anche alla pienezza
degli acuti che il tenore lascia udire nel suo splendido primo blocco
d'incisioni del 1903. Intanto, mercé la straordinarietà della voce e i
lusinghieri trionfi, s'era fatto notare nientemeno che da Giulio
Ricordi, che lo indicò a Verdi come un possibile tenore di cartello per
il Boccanegra scaligero del 1881: "io le prometto in poche ore combinare
una compagnia di gentiluomini e di artisti veri, dai quali Essa avrà
non la deferenza, ma la compiacenza di ottenere tutti gli effetti:
Moriami, Mariani, Marconi e forse Nannetti [celeberrimo basso
rappresentante della scuola romana nonché rinomato insegnante di
canto]". Così Giulio Ricordi in una missiva del febbraio 1881. Il 22
gennaio del 1881, sempre all'Apollo di Roma, apparve nel Faust
incassando nuovo grande successo e ponendosi come il migliore della
compagnia: "il Marconi in soli due anni ha percorso un lungo cammino e
adesso egli è la, dove molti sarebbero contenti di finire. La sua voce
melodiosa bella e chiara la emette senza sforzo alcuno, con
un'intonazione perfetta anche senza lo sfoggio di tanti urli emessi in
falsetto, che formano la fama di qualche altro tenore. Ciò non toglie
Che egli non sappia procurarsi un subisso di applausi per il potente Do
di petto che, con una naturalezza unica, ci regala nel terzo atto. Però
apprezzo più di lui il sentimento e il gusto artistico. Le imprese se lo
contenderanno. Degna compagna di lui fu la signora Durand". Così il
critico dell'"Affondatore".
Marconi (3)
La celebrità ormai l'aveva invaso e sempre nel 1881 iniziò a prodursi in
Russia, all'epoca feudo incontrastato di Angelo Masini. Quì Marconi fu
definito "splendido artista" assieme con Cotogni. Fino al 1884 cantò
principalmente in Russia, favorendo Traviata, Lucia, Huguenots e Don
Giovanni e Gioconda, sovente eseguite accanto a Cotogni. Il decennio
1882-1892 vide Marconi protagonista anche al Covent Garden, Buenos
Aires, Liceo di Barcellona e Gaité di Parigi con i Puritani: di lui
nuovamente si disse d'aver voce simile a quella di Gayarre, "graziosa", e
di fraseggiare con gusto e calore. Il 1888 fu impiegato per la prima
volta in una tournée a New York con Italo Campanini in veste
d'impresario per l'Otello di Verdi con Marconi protagonista, Eva
Tetrazzini, Galassi come Jago e Cleofonte Campanini, fratello di Italo,
come direttore. Ma Marconi andò incontro un clamoroso insuccesso tanto
da indurre il tenore Italo Campanini, di dieci anni più vecchio, a
protestarlo e cacciarlo: prese parte egli stesso alla prima recita come
Otello. L'impresa tuttavia non riuscì nemmeno a Campanini, e la
compagnia si sciolse poco dopo. Nonostante Marconi avesse solamente
trentatré anni, il periodo aureo iniziava per lui a tramontare, sembra
anche piuttosto repentinamente. Dal 1891 circa gli capitava d'incorrere
con certa frequenza nelle stecche. A Madrid, nel 1892 fu fischiato dopo
aver steccato durante un'esecuzione dell'Otello, probabilmente partitura
veramente sopra i suoi mezzi naturali. Subito dopo al San Carlo di
Napoli la voce parve impoverita nella freschezza e nella sonorità. Nel
1893, a Madrid, steccò un acuto nella cadenza del "questa o quella"E
sempre a Madrid, nel 1895, fu costretto ad abbassare le tonalità degli
Huguenots. Ma tra le serate più negative che della sua carriera si
ricordano, occorre citare indubbiamente quelle dei Puritani dati alla
Scala nel 1897, in sostituzione di Bonci protestato. Non mancarono però
sprazzi dell'antica grandezza: "L'aspettazione è grande. Marconi
comincia le prime note del paradisiaco canto "a te, o cara, amor talora"
e tutti ne ammirano la bella voce gustata già altre volte (sono molti
anni) alla Scala. Ma si formò comune ammirazione il dono che madre
natura vuole fare a Marconi - che dispone tuttora di un organo vocale
raro a trovarsi - non fu così per il modo di cantare. Evidentemente
cerchi teatri dell'estero hanno corrotto il gusto di questo artista. Il
Marconi interpreta Bellini in modo affatto arbitrario, spesso lezioso,
rallentando e affrettando i movimenti quando meno necessiterebbe,
abusando del falsetto e con punture non felici". Questo fu il critico
del Secolo, 26 febbraio 1897. In realtà, ad onta delle sempre più
frequenti serate poco felici, più che di decadenza vocale si potrebbe
parlare di decadenza di gusto. In ciò, Marconi non fu dissimile ai suoi
contemporanei tipo De Lucia, nelle cui esecuzioni l'arbitrarietà e la
tendenza a sovrapporsi alla parte creavano grossi squilibri stilistici
in quel tipo di melodramma. Ma ancora nel dicembre 1898, a San
Pietroburgo ottenne un nuovo trionfo nel Faust: "al Grand Théâtre du
Conservatoire, il tenore Francesco Marconi canta Faust con Mattia
Battistini e Vittorio Arimondi. Marconi è acclamato protagonista", Il
Trovatore del 9 gennaio 1899. Nel 1903, anno delle sue prime incisioni, a
Pietroburgo ottenne caloroso successo con l'Evgenij Onegin accanto a
Battistini e Navarrini: "L'opera eseguita bene in lingua italiana fu
data in onore di Marconi che entusiasmò il pubblico, specialmente nella
celebre romanzo del terzo atto prima del duello, dovendola ripetere fra
scrosciare di applausi. Battistini fu, come al solito, sommo".
Effettuò due blocchi d'incisioni per la Gramophone, nel 1903 e nel 1908, che non
hanno mai goduto di interamente di ristampe fino al 1989, allorché
l'inglese Symposium le ristampò in due Cd separati. Debbo confessare
che sempre mi ha provocato un filo d'irritazione la sottovalutazione
delle incisoni di Marconi da parte della critica, italiana soprattutto.
Il primo blocco del 1903, formato da una dozzina di facciate, contiene
pezzi unici. La voce è ancora duttile, soprattutto morbida, anche se la
tecnica d'incisione rudimentale dell'epoca danneggia più di tutto il
timbro, che appare sfocato. Ciò che maggiormente colpisce è la
spontaneità della mezzavoce. Questo leggendario tenore, ad onta del
declino, nel 1903 era capace ancora di grandi momenti, sia come
vocalista che come interprete. Il celestiale attacco del "cielo e mar",
la spontaneità dei portamenti di voce e la mezzavoce nel Sol acuto de "o
sogni d'or" hanno, tolto solamente Beniamino Gigli, ben pochi paragoni
nella storia del disco. L'"o paradiso" mette in rilievo, oltre alla già
citata stupenda mezzavoce, la leggendaria altèra tracotanza che i tenori
di scuola romana avevano nel registro acuto. Infine, la romanza "non
guardarmi così" di Paloni eseguita con toccante espressività, si
conclude con un La naturale acuto emesso a mezzavoce e ridonando in
disco, a Marconi, leggendario tenore, tutta la grandezza del suo mito.
Il secondo blocco d'incisioni realizzato nel 1908, contente tra l'altro
l'unico disco commerciale inciso da Cotogni, presenta il tenore in
declino e costretto ad abbassare di tono numerose arie (addirittura il
"dai campi dai prati" inciso in tono nel 1903, cinque anni dopo è
abbassato d'un tono intero). Visse gli ultimi anni della sua vita in
discreta agiatezza. Fred Gaisberg racconta che le incisioni vennero
realizzate nel castello di proprietà del tenore. Ebbe due figli che
chiamò con i nomi degli Ugonotti Valentina e Raoul. Affetto da problemi
cardiaci, si spense sessantenne nella sua Roma, nel 1916.
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Marconi ha i suoi difettucci, tanto più che era ormai fuori carriera. Ma è
affascinante. Si sente un patrimonio vocale di qualità, anche se
consunto, si sente la tecnica, che gli consente ancora di sopperire alla
grande all'usura della voce, si sente
il grande temperamento, si sente un gusto che non è affatto volgare.
L'avranno pure accusato di essere arbitrario e lezioso, ma a giudicare
da questi dischi direi che c'è abbondantemente di peggio tra i suoi
contemporanei come musicalità, esibizionismo, caccole e birignao. E' un
tenorismo antico che mi piace, in cui si riconosce il seme buono che poi
è passato attraverso la scuola romana alla generazione successiva. Ok?
Ma non ci sono altri dischi??? Ancora, ancora
I dischi di Marconi sono tutti difficili da trovare eccetto il duetto con
la Galvany che e' molto comune. Anche perche' venne ristampato per
molti anni nel catalogo storico della VDP.
19:40 Guai se ti sfugge un moto....
Rosalia CHALIA, soprano cubano nato nel 1863, non aveva mai la grande
celebrità di molti soprani coevi, cioè: svolse una modesta carriera
nella sua patria, e fuori il suo continento apparse solo a Philadelphia
(nel 1894 nei panni di Aida) e una volta al Metropolitan Opera (nel 1898
come Santuzza). Incise, come molti cantanti dell'età di pietra del
fonografo, non pochi dischi (compreso moltissimi cilindri Bettini, molti
oggi scomparsi), tra cui il maggior interesse sontengono quelli
fatti nel 1900 per Zonophone. Ma forse non ho detto la verità - non
solo sontengono interesse, ma lasciano un ascoltatore con una bocca
aperta. Se penso ai registrazioni di molti soprani nati tra anni '60 e
'70 di ottocento, anche altamente celebri e importanti, mi ricordo voci
sbiadite, fisse, malferme, disuguali. E questo, stranamente, non è certo
riconducibile al canto che s’evince dai vetusti dischi di Rosalia
Chalia - soprano quasi dimenticato anche da collezionisti e, come ho
detto, d'una carriera molto modesta. Voglio dire subito che la cosa che
può disturbare l'orecchio dell’ascoltatore dei suoi dischi è l’abuso del
registro di petto - sgianciato dai centri, spesso aperto e emmesso
nella posizione troppo bassa - una cosa comune per soprani di primo
‘900. Per il resto, la voce della Chalia in disco è caldissima, intensa,
ricca d’armonici, risonantissima, ha un volume e una purezza
dell’emissione nella zona medio/acuta quasi incredibili. Emblematico in
questo senso è l’incisione dell’aria del Ballo in Maschera, dove la
cantante emmette un Do acuto vellissifero, perfettamente “in maschera” e
d’una purezza transcedentale. Lo stesso accade nel disco dei Cieli
azzurri, dove il Do - a misura un po' minore rispetto al Ballo, però - è
davvero imponente. E questo nei vetustissimi dischi del 1900,
incredible!!!
Ma ancor più colpiscono le incisioni del repertorio
belcantistico-rossiniano, cioè: due brani del Barbiere di Siviglia (tra
cui due parti della scena di Rosina e il duetto ‘Dunque io son’, inciso
con il leggendario baritono Alberto de BASSINI) e l’aria di Semiramide,
dove la Chalia mostra una notevole capacità nel florido canto d’agilità:
i difficilissimi passaggi, le fiorettatture, i trilli (specie nell’aria
di Rosina, dove la cantante esegue agilità usate principalmente dai
soprani leggeri) sono nitidissimi, quasi mai pesanti, frenati o
pasticciati. E questo è cantanto da un soprano da voce grossa, in grado
di emmettere acuti sfolgorantissimi nei ruoli pesanti e “sanguini” tipo
Amelia. Ecco il vero soprano “Drammatico Coloratura” all'antico.
E’ con il Verismo che il cantante si fa obbligatoriamente attore (attore secondo il canone di una Duse, cui spesso la Bellincioni fu paragonata): la diffusione del nuovo genere coincide con l’era del disco, e ad esse si accompagna, come mai prima di allora, l’arte fotografica, come aveva insegnato l’indiscusso maestro del Verismo Giovanni Verga. Immagine e suono, scena e canto sono continuamente contaminati da prosa e cinema muto, ed il gusto li accomuna in un universale sentire al di sopra delle righe, nell’esasperazione dei toni, ora languidi ora drammatici, ora isterici, ora lirici. E ciò coinvolge uomini e donne. Le pose della diva stigmatizzata da FloriaTosca (pensate una cantante che fa la parte della cantante) hanno il loro parallelo in Paolo il bello o in Loris Ipanoff.