Maria Valtorta - Quad. 1945-1950 - 11 febbraio 1945: Carcere per i cristiani destinati al martirio

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  • Опубліковано 29 гру 2024
  • Maria Valtorta - Quaderni 1945-1950 - 11 febbraio 1945: Carcere per i cristiani destinati al martirio
    "(…) Fra i miei spasimi vedo questi altri spasimi.
    Una specie di pozzo circolare di una larghezza di pochi metri quadri. Avrà un diametro di quattro, cinque metri al massimo, alto quasi altrettanto, senza finestre. Una porta stretta, piccola, di ferro, è incassata nel muraglione di quasi un metro di spessore. Al centro del soffitto un buco tondo, di un diametro di un mezzo metro al massimo, serve per l’aerazione di questo pozzo che nel suo pavimento, di suolo battuto, ha un altro buco dal quale sale fetore e gorgoglìo d’acque profonde, come se vicino ci fosse un fiume o sotto passasse una cloaca diretta al fiume. Il luogo è malsano, umido, fetido. Le muraglie trasudano acqua, il suolo è impregnato di materie schifose, perché comprendo che il buco del soffitto fa da scolo ai rifiuti della cella soprastante.
    In questo orrido carcere, in cui è una penombra folta che appena permette di intravvedere l’essenziale, sono due persone. Una è coricata al suolo, nell’umido, presso la parete, è incatenata per un piede. Ma non fa moto alcuno. L’altro è seduto lì presso, col capo fra le mani. È vecchio, perché vedo il sommo della testa calvo affatto.
    Al di sopra, nell’altra cella, vi devono essere più persone, perché odo voci e tramestìo. Voci di uomo e di donna. Voci di bimbi e di vecchi commiste a voci fresche di giovinette e forti di adulti.
    Cantano dentro per dentro dei mesti inni che pur nella loro mestizia hanno un che di tanta pace. Le voci risuonano contro le pareti spesse come in una sala armonica. È molto bello l’inno che dice:
    “Conducici alle tue fresche acque.
    Portaci negli orti tuoi fioriti.
    Dài la tua pace ai martiri
    che sperano, che sperano in Te.
    Sulla tua promessa santa
    abbiam fondato la nostra fede.
    Non deluderci, Gesù Salvatore,
    perché abbiamo sperato in Te.
    Ai martirii noi gioiosi andiamo
    per seguirti nel bel Paradiso.
    Per quella Patria tutto lasciamo
    e non vogliamo, non vogliam che Te”.
    Quando quest’ultimo canto si spegne lento, una luce si affaccia al buco e un braccio si spenzola con una piccola lampadetta. Un volto d’uomo pure si affaccia. Guarda. Vede che l’uomo coricato non fa moto e l’altro col capo fra le mani non vede il lume, e chiama: “Diomede! Diomede! È l’ora”.
    Il seduto sorge in piedi e trascinando la sua lunga catena viene sotto la botola. “Pace a te, Alessandro”.
    “Pace, Diomede”.
    “Hai tutto?”.
    “Tutto. Priscilla osò venire, travestita da uomo. Si è rasi i capelli per parere un fossore. Ci ha portato di che celebrare il Mistero. Agapito che fa?”.
    “Non si lamenta più. Non so se dorma o se sia spirato. E vorrei vedere... Per dire su lui le preci dei martiri”.
    “Ti caliamo la lampada. Attendi. Sarà gioia per lui avere il Mistero”.
    Con un cordone di cinture annodate calano il fanaletto sino alle mani di Diomede che, ora lo vedo bene, è un vecchio dal volto affilato e austero. Pallidissimo, con pochi capelli, ha due occhi ancor splendidi di espressione. Nella sua miseria di incatenato in quella fetida tana ha dignità di re.
    Stacca il fanaletto dal cordone e va verso il compagno. Si china. Lo osserva. Lo tocca. E apre le braccia, dopo aver posato la lampada al suolo, in un largo gesto di commiserazione. Poi raccoglie le mani del cadavere, già quasi irrigidite, e le incrocia sul petto. Povere mani gialle e scheletrite di vecchio morto di stenti.
    Si volge a chi attende presso il foro e dice: “Agapito è morto. Gloria sia al martire della putrida fossa!”.
    “Gloria! Gloria! Gloria al fedele al Cristo” rispondono quelli della cella superiore.
    “Calate per il Mistero. Non manca l’altare. Non più le sue mani, tese a far da sostegno. Ma l’immoto petto che sino all’ultima ora ebbe palpiti per il Signore nostro, Gesù”.
    Viene calata una borsa di preziosa stoffa a da questa Diomede estrae un piccolo lino, un pane largo e basso, un’anfora ed un piccolo calice. Prepara tutto sul petto del morto, celebra e consacra dicendo le orazioni a memoria mentre quelli di sopra rispondono. Deve essere nei primi tempi della Chiesa, perché la Messa è su per giù come quella di Paolo nel Tullianum (quaderni 29 febbraio 1944).
    Quando la consacrazione è avvenuta, Diomede rimette nell’anfora il vino del calice che è lievemente a brocca, forse scelto per questa funzione così, ripone le Specie nella borsa e riporta tutto là dove il cordone attende di riportare di sopra la borsa. Mentre questa sale, sollevata con precauzione, Diomede assolve i compagni. Il canto, quasi tutto di fanciulle, riprende dolcemente mentre i cristiani si comunicano...

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