Maria Valtorta: La parabola figliol prodigo - Ev. cap. da 205.3 a 205.6
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- Опубліковано 3 лют 2025
- MARIA VALTORTA
La parabola figliol prodigo - Ev. cap. da 205.3 a 205.6
Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore, che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi e decidere da sé, ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L'intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmaci i quali usati in mal modo non sanano ma uccidono.
Il padre, era nel suo diritto e nel suo dovere, lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.
Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse: "Dammi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto".
"Guarda" rispose il padre, "che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te".
"Non ti chiederò nulla. Sta' sicuro. Dammi la mia parte."
Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandre e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro. E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire "sono campagnolo", rinnegando perciò il padre suo. Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco....vita dissoluta... Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.
Avrebbe voluto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: "Accoglimi tra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie".
Vedete voi come è stolto l'uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: "Perdono! Ho sbagliato!" Quell'uomo aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell'Ecclesiastico: "Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre". Era intelligente, ma non sapiente.
L'uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci - perché si era in un paese pagano e vi erano molti porci - e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandre dei porci. Lurido, stracciato, puzzolente, affamato - perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per i più infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso era ritenuto tale - vedeva i porci satollarsi delle ghiande, e sospirava: "Potessi io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni". E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze... e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli... e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto e sospirava: "I garzoni di mio padre, anche gli infimi, hanno pane in abbondanza... e io qui muoio di fame..."
Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia... infine venne il giorno che, rinato nell'umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse: "Io vado dal padre mio! E' stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. E' detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abbiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame! Gli dirò: "Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l'infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare...." non potrò dirgli: "... perché ti amo". Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora... Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama".
E tornato la sera in paese si licenziò dal padrone, e mendicando per via tornò a casa sua. (...)