Vediamo di darci una svegliata, poi ci chiediamo perché nel mondo pullula ignoranza a fiumi: Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una formazione scolastica “per competenze” sono due: (a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale; (b) la possibilità di misurare mediante le competenze il “valore aggiunto” ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze. In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna, ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. Soltanto chi non conosca la storia della cultura scientifica e del suo insegnamento può credere che qualcuno possa mai aver seriamente pensato che sia possibile apprendere la matematica senza fare esercizi e applicazioni o che la fisica possa ridursi all’apprendimento astratto di leggi teoriche. E’evidente che la tematica della didattica per “competenze” abbia ben altra natura e risponda ad altri scopi. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento Europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente, che hanno come obiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che, da tempo, si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche. Si ammette generalmente che esista un collegamento tra la teoria delle competenze in ambito aziendale e quella che è entrata nei sistemi educativi, ma si tende a minimizzare tale collegamento omettendo che tale teoria fu introdotta dallo psicologo statunitense David McClelland il quale, dopo una breve sperimentazione teorica, la introdusse nelle organizzazioni aziendali, in particolare attraverso la ditta McBer&co da lui fondata nel 1963. Il tentativo era volto alla misurazione della “motivazione” del dipendente d’azienda e della sua propensione al successo, attraverso il TAT (Thematic Apperception Test). Tutti i tentativi sviluppati fino ad oggi per rendere “oggettivi” gli avanzamenti di carriere e i bonus relativi alle prestazioni dei dipendenti, nell’ambito del connubio tra la teoria delle competenze di McClelland e il Performance Management System, si sono rilevati insoddisfacenti. La speranza di introdurre criteri oggettivi, e quindi di misurare le competenze, si è scontrata con il fatto che le interpretazioni del modello hanno spesso caratteristiche locali, se non personali, e quindi altamente arbitrarie. Inoltre, la necessità di semplificare entro una tipologia schematica situazioni di alta complessità, conduce a formulazioni fatte a tavolino e aventi esili relazioni con la realtà. Nonostante queste difficoltà - che fanno dire a molti specialisti del settore che la teoria delle competenze in ambito aziendale “fa acqua” da tutte le parti - essa è stata brutalmente importata in ambito scolastico e imposta ex lege come nel nostro caso. Una legge dello Stato, il Decreto Legislativo numero 62 del 2017 e un coacervo di circolari e note ministeriali, in aperta violazione con quanto stabilito dall’articolo 33 della Costituzione della Repubblica, impongono agli insegnanti italiani una scelta didattica precisa: insegnare per competenze attraverso l’ introduzione di una certificazione delle Competenze. Competenze che vanno misurate secondo i dettami di un ente esterno (Invalsi) attraverso sia la procedura di somministrazione censuaria di test, sia la compilazione di un Rapporto di Autovalutazione (RAV), al quale segue un Piano di Miglioramento (PDM), entrambi soggetti, poi, al controllo, al parere ed alla valutazione del (Nucleo esterno (!) di Valutazione (NEV), organo, che a sua volta, valuta poi gli stessi docenti! Chiunque abbia una nozione anche vaga del concetto di misurazione si rende conto che una competenza complessa, come ad esempio la comprensione linguistica, non è misurabile! Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure, ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta, ma è intrisa di fattori soggettivi. Come hanno osservato in un recente documento congiunto (“Citation Statistics”, reperibile in rete) la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, se si sostituiscono le qualità con i numeri, si ottiene banalmente qualcosa di misurabile, ma la sostituzione è del tutto arbitraria. L’uso dei test può dare risultati migliori delle valutazioni individuali dirette solo se i test riguardano capacità semplici e definibili in termini molto elementari e se si utilizza un unico sistema. Pertanto il ricorso ai test è utile a livello della valutazione di “competenze” minime, pur restando intriso di elementi soggettivi. È quel che ammettono gli studiosi liberi da pregiudizi ideologici. Essi ricordano che non esiste un’unica definizione accettata di competenza: e già questo dice molto sulla fragilità della costruzione. Sono state costituite commissioni mondiali per studiare la definizione di competenza, senza successo: sono state proposte definizioni diverse a centinaia. La conclusione cui si è giunti è che, se si adottano definizioni deboli, ovvero relative a capacità elementari, qualcosa può essere stimato. Se invece si considerano fattori affettivi e motivazionali nessuna stima quantitativa è possibile.
A parte il tono iniziale poco rispettoso, dal momento che è entrato (diciamo così a gamba tesa) in uno spazio gestito dal sottoscritto, la ringrazio per questo approfondimento. Chi leggerà potrà farsi un'idea di quello che pensa lei e di quello che penso io e trarre le proprie conclusioni. Buona domenica
Infatti non si rendono conto questi prof universitari del lavoro quotidiano e del delirio digitale che propongono alle nuove generazioni di docenti convinti di.migliorare la scuola ..fra 5 anni non ci saranno più docenti nelle scuole pubbliche
Una conoscenza da sola non serve a nulla. Messa assieme a una abilità può contribuire alla creazione di una competenza. La competenza della comunicazione nella lingua madre è fatta di molte abilità (scrivere, parlare, ascoltare, leggere) che non possono però essere staccate da argomenti, conoscenze da mettere in gioco...
Ma per favore belle parole ma la competenza nella primaria è un traguardo che si può valutare come competenza in quinta e dipende molto.dalle classi ...ah quindi si decide senza obiettività ci mettiamo d' accordo con gli studenti ...per la valutazione ..lo speaker si contraddice continuamente perché la casistica nelle classi e' enorme ...sembra un.modello tipo commerciale ..non e' praticabile
La competenza è un traguardo sì. Ma dobbiamo cominciare a costruirla fin dalla scuola dell'infanzia. Altrimenti non lo si raggiunge mai. Io pratico questo modalità di valutazione e conosco moltissimi insegnanti che fanno altrettanto nella scuola primaria. Non c’è nulla di non praticabile; basta volerlo.
Grazie mille per la condivisione!
Sei chiarissimo ma le pause nel discorso sono snervanti. Accelera! 😁
Ascolta a velocità aumentata, si segue bene anche così.
ti ringrazio per questo video molto utile.
grazieeeeeeeeeee chiaro!!!!
grazie
Interessante
Vediamo di darci una svegliata, poi ci chiediamo perché nel mondo pullula ignoranza a fiumi:
Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una formazione scolastica “per competenze” sono due:
(a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale;
(b) la possibilità di misurare mediante le competenze il “valore aggiunto” ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze.
In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna, ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. Soltanto chi non conosca la storia della cultura scientifica e del suo insegnamento può credere che qualcuno possa mai aver seriamente pensato che sia possibile apprendere la matematica senza fare esercizi e applicazioni o che la fisica possa ridursi all’apprendimento astratto di leggi teoriche.
E’evidente che la tematica della didattica per “competenze” abbia ben altra natura e risponda ad altri scopi. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento Europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente, che hanno come obiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che, da tempo, si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche.
Si ammette generalmente che esista un collegamento tra la teoria delle competenze in ambito aziendale e quella che è entrata nei sistemi educativi, ma si tende a minimizzare tale collegamento omettendo che tale teoria fu introdotta dallo psicologo statunitense David McClelland il quale, dopo una breve sperimentazione teorica, la introdusse nelle organizzazioni aziendali, in particolare attraverso la ditta McBer&co da lui fondata nel 1963.
Il tentativo era volto alla misurazione della “motivazione” del dipendente d’azienda e della sua propensione al successo, attraverso il TAT (Thematic Apperception Test).
Tutti i tentativi sviluppati fino ad oggi per rendere “oggettivi” gli avanzamenti di carriere e i bonus relativi alle prestazioni dei dipendenti, nell’ambito del connubio tra la teoria delle competenze di McClelland e il Performance Management System, si sono rilevati insoddisfacenti.
La speranza di introdurre criteri oggettivi, e quindi di misurare le competenze, si è scontrata con il fatto che le interpretazioni del modello hanno spesso caratteristiche locali, se non personali, e quindi altamente arbitrarie. Inoltre, la necessità di semplificare entro una tipologia schematica situazioni di alta complessità, conduce a formulazioni fatte a tavolino e aventi esili relazioni con la realtà. Nonostante queste difficoltà - che fanno dire a molti specialisti del settore che la teoria delle competenze in ambito aziendale “fa acqua” da tutte le parti - essa è stata brutalmente importata in ambito scolastico e imposta ex lege come nel nostro caso.
Una legge dello Stato, il Decreto Legislativo numero 62 del 2017 e un coacervo di circolari e note ministeriali, in aperta violazione con quanto stabilito dall’articolo 33 della Costituzione della Repubblica, impongono agli insegnanti italiani una scelta didattica precisa: insegnare per competenze attraverso l’ introduzione di una certificazione delle Competenze.
Competenze che vanno misurate secondo i dettami di un ente esterno (Invalsi) attraverso sia la procedura di somministrazione censuaria di test, sia la compilazione di un Rapporto di Autovalutazione (RAV), al quale segue un Piano di Miglioramento (PDM), entrambi soggetti, poi, al controllo, al parere ed alla valutazione del (Nucleo esterno (!) di Valutazione (NEV), organo, che a sua volta, valuta poi gli stessi docenti!
Chiunque abbia una nozione anche vaga del concetto di misurazione si rende conto che una competenza complessa, come ad esempio la comprensione linguistica, non è misurabile!
Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure, ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta, ma è intrisa di fattori soggettivi.
Come hanno osservato in un recente documento congiunto (“Citation Statistics”, reperibile in rete) la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, se si sostituiscono le qualità con i numeri, si ottiene banalmente qualcosa di misurabile, ma la sostituzione è del tutto arbitraria. L’uso dei test può dare risultati migliori delle valutazioni individuali dirette solo se i test riguardano capacità semplici e definibili in termini molto elementari e se si utilizza un unico sistema. Pertanto il ricorso ai test è utile a livello della valutazione di “competenze” minime, pur restando intriso di elementi soggettivi. È quel che ammettono gli studiosi liberi da pregiudizi ideologici.
Essi ricordano che non esiste un’unica definizione accettata di competenza: e già questo dice molto sulla fragilità della costruzione. Sono state costituite commissioni mondiali per studiare la definizione di competenza, senza successo: sono state proposte definizioni diverse a centinaia. La conclusione cui si è giunti è che, se si adottano definizioni deboli, ovvero relative a capacità elementari, qualcosa può essere stimato. Se invece si considerano fattori affettivi e motivazionali nessuna stima quantitativa è possibile.
A parte il tono iniziale poco rispettoso, dal momento che è entrato (diciamo così a gamba tesa) in uno spazio gestito dal sottoscritto, la ringrazio per questo approfondimento.
Chi leggerà potrà farsi un'idea di quello che pensa lei e di quello che penso io e trarre le proprie conclusioni.
Buona domenica
che ppalle questa roba..quante manfrine per quello scancherato di concorso che sto preparando
La ricerca di una modalità formativa per valutare non mi sembra una manfrina
Infatti non si rendono conto questi prof universitari del lavoro quotidiano e del delirio digitale che propongono alle nuove generazioni di docenti convinti di.migliorare la scuola ..fra 5 anni non ci saranno più docenti nelle scuole pubbliche
..valutare l'interconnessione di conoscenze e abilità nel momento in cui concorrono alla creazione di una o più competenze.. Chiaro no?
Una conoscenza da sola non serve a nulla. Messa assieme a una abilità può contribuire alla creazione di una competenza.
La competenza della comunicazione nella lingua madre è fatta di molte abilità (scrivere, parlare, ascoltare, leggere) che non possono però essere staccate da argomenti, conoscenze da mettere in gioco...
Ehi a voglia analitica olistica maestre voi immaginate 66 alunni 5 materie con la rubrica olistica
Ma per favore belle parole ma la competenza nella primaria è un traguardo che si può valutare come competenza in quinta e dipende molto.dalle classi ...ah quindi si decide senza obiettività ci mettiamo d' accordo con gli studenti ...per la valutazione ..lo speaker si contraddice continuamente perché la casistica nelle classi e' enorme ...sembra un.modello tipo commerciale ..non e' praticabile
Perché sostiene non vada bene discutere con gli studenti le modalità di valutazione? E' trasparente e formativo.
La competenza è un traguardo sì.
Ma dobbiamo cominciare a costruirla fin dalla scuola dell'infanzia. Altrimenti non lo si raggiunge mai.
Io pratico questo modalità di valutazione e conosco moltissimi insegnanti che fanno altrettanto nella scuola primaria.
Non c’è nulla di non praticabile; basta volerlo.
non è altro che una griglia ...
certo, una griglia che valuta conoscenze, abilità, atteggiamenti. tutto ciò che concorre alla costruzione di una competenza
Eh una griglia che ingabbia i docenti